La leggerezza della Biennale
Scomoderò Calvino e il suo saggio sulla leggerezza nelle Lezioni Americane, perché è il libro che avevo nella testa mentre camminavo per la Biennale di Venezia. Pensavo a Medusa, ma non al suo sguardo pietrificante: piuttosto al suo nome, che vuol dire “protettrice”, al cavallo alato Pegaso nato dal suo sangue, al colpo di zoccolo con cui dal Monte Elicona fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse, al rifiuto della visione diretta, ma non della realtà in cui sta la forza di Perseo che usa la testa mozzata di Medusa come strategia e infine alla conclusione della storia. Alla gentilezza di Perseo, che va a lavarsi le mani: «Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita, egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù», scriveva Ovidio. I ramoscelli a contatto con la testa di lei si trasformano in coralli e le ninfe «per adornarsi di coralli», dice Calvino, «accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe» alla terribile Gorgone.
La Medusa che Calvino usa per raccontare la “leggerezza della pensosità” racconta con cura il senso della Biennale di quest’anno. Che non è affatto debole, come qualcuno l’ha definita, e che è potente solo in un modo differente rispetto alla precedente occupata invece dall’impegno politico, dalla protesta, dall’attivismo e dalla rivendicazione. In questo caso, la leggerezza che per contrasto definisce la 57esima edizione, non è un difetto. Tutt’altro: è strategica e in un certo senso femminile, è fatta di materie che legano, che invitano a fare comunità, che invece di spezzare tramano e mettono in relazione. E che, infine, tutte insieme sollevano dal peso. L’esperienza, in generale, è divertente e balsamica. Ci sono molti tessuti, ricami, trame, collant e fili, presenze sciamaniche che vanno altrove per trovare la forza di modificare l’al di qua, camion messi in verticale che diventano torri da cui guardare dall’alto, persone che spazzano polveri di luce, pareti di enormi gomitoli colorati, sfere di marmo sonore, funamboli che trasportano opere d’arte da una montagna all’altra, lezioni di storia dell’arte fatte da sedie indiane per la levitazione, enormi falene, piante che crescono in scarpe da ginnastica, forbici fatte all’uncinetto, arcobaleni assemblati con spille di Stalin, cigni luminosi e acqua. Processi di cura che si compongono solo alla fine, più che nell’istante delle singole azioni eroiche. Ed è con leggerezza che ho passeggiato per la Biennale, consapevole naturalmente di poter essere smentita dai più esperti e dai più critici.
Qualcosa sui Padiglioni
Il Padiglione Italia, alla fine del percorso dell’Arsenale, accanto al Giardino delle Vergini, è curato da Cecilia Alemani e si intitola “Il mondo magico”, espressione presa a prestito dal libro dell’antropologo napoletano Ernesto de Martino che negli anni Cinquanta, a seconda guerra mondiale appena finita, tentava di riprendere il filo dell’umanità attraverso un lavoro sui riti, le credenze e le mitologie. Al Padiglione sono presenti tre artisti, Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey che tenendosi lontani dall’arte come documentazione si fanno guide e interpreti di mondi possibili. Siamo nelle loro mani, accompagnati in un processo in cui i singoli gesti perdono il loro senso puntuale e ne acquistano uno superiore, alleggerendosi, alla fine del percorso.
L’opera di Roberto Cuoghi si chiama “Imitazione di Cristo” e cita il testo religioso più diffuso di tutta la letteratura cristiana occidentale, dopo la Bibbia. De Imitatione Christi è in lingua latina, l’autore è sconosciuto e parla della via da percorrere per raggiungere la perfezione seguendo Gesù. L’opera di Cuoghi si ispira dunque a un’opera ascetica e il processo che lui ha costruito, laicamente parlando, ha in effetti a che fare con un’educazione al dolore, con una depurazione più che con una purificazione. Lo spazio è occupato dalle fasi del processo. Inizialmente, su un palco dove è stata montata un’officina, vengono fabbricate delle sculture: in uno stampo sempre uguale vengono versati dei materiali organici ogni volta differenti tra loro. I corpi vengono poi messi a riposare dentro a un tunnel trasparente in cui si aprono delle stanze. In ognuna i corpi restano stesi in diversi ambienti e climi e a seconda del calore, dell’umidità e della materia stessa ammuffiscono, si decompongono, si colorano in modo unico. Fuori dal tunnel attraversano altre due fasi e a quel che resta (niente di intero) viene ridata una forma “sull’altare”, la parete che conclude l’opera.
Il percorso (in cui, ripeto, non ho trovato niente di religioso, ma molto di mitologico e psicanalitico) funziona come un’elaborazione del lutto in cui tutte le fasi sono visibili e attraversabili. L’esperienza è alla fine liberatoria e catartica. L’opera salva dal trauma di non aver più visto, dopo lo sparo, la mamma di Bambi.
L’installazione di Giorgio Andreotta Calò è un intervento architettonico che seziona in due livelli un’intera grande sala del padiglione. Piuttosto perplessi si entra in una foresta di tubi, si intravedono delle sculture marine appese qua e là, un mondo di sotto scarno e buio. In fondo c’è una scala. Salitela e vi troverete di fronte a una specie di miraggio in cui una vastissima distesa d’acqua, grande quanto tutto lo spazio di sotto, viene usata come specchio. Il soffitto del padiglione si riflette e si rovescia generando una visione spaesante in cui anche chi guarda si sdoppia nello specchio posto all’estremità della stanza. La visione ricorda la chiglia di una nave affondata o un’enorme e immobile clessidra.
(L’installazione di Giorgio Andreotta Calò – 57esima Esposizione Internazionale d’Arte- La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva)
Ci sono altri due padiglioni nazionali presenti all’Arsenale che vale la pena cercare. Quello dell’Argentina di Claudia Fontes con il suo “problema del cavallo”, intanto. Ve la sbrigate velocemente, ma l’installazione è molto scenografica e, sebbene non ci siano legami dichiarati, non potrà non farvi pensare alla “Fearless Girl” davanti al famoso toro di Wall Street. Qui però è tutto più bianco, tutto più grande, e tutto concentrato sull’animale più che sulla resistenza femminile. Il consiglio è di entrare dal punto giusto: dietro il cavallo.
(El problema del caballo, Claudia Fontes – Il Post)
Usciti dalla mostra dell’Arsenale, subito sulla destra, c’è il padiglione dell’Irlanda. Dentro ci vive una strega gigante. Fermatevi e aspettate che cominci a raccontare la sua storia dall’inizio. L’opera, che si compone di video, sculture e tende sottili, è di Jesse Jones e nasce da un movimento che ha preso forza negli ultimi anni in Irlanda per chiedere una radicale trasformazione del rapporto tra stato e chiesa che, così com’era ed è tuttora, pesa soprattutto sul corpo delle donne (l’Irlanda è un paese in cui la religione cattolica è molto influente e radicata e in cui il divieto di abortire è addirittura scritto nella Costituzione). Il titolo dell’installazione è Tremble Tremble e l’artista spiega esplicitamente di essersi ispirata alla campagna italiana degli anni Settanta per il “Salario al lavoro domestico” e allo slogan delle femministe “Tremate tremate le streghe son tornate”. Jones mette insieme la memoria della caccia alle streghe e l’oppressione delle donne, il controllo governativo sul corpo femminile e i processi irlandesi per sinfisiotomia. La sinfisiotomia è una procedura chirurgica applicata alle donne in gravidanza come alternativa al taglio cesareo (una versione catto-medica del “partorirai con dolore”). Si pensa che tra gli anni Venti e gli anni Ottanta sia stata effettuata su circa 1.500 donne irlandesi spesso senza il loro consenso. Consiste nella recisione di una delle principali articolazioni pelviche e nello scardinamento del bacino per favorire il parto naturale.
Nella sua opera Jones immagina un rovesciamento, un diverso ordinamento giuridico in cui le moltitudini si radunano in un unico gigantesco corpo femminile simbolico per proclamare, contro la legge del Padre, quella dell’In Utera Gigantae. Se la legge degli uomini è minuta, normante e condizionata, la legge della gigantessa è invece la legge con la elle maiuscola. Tessa Giblin, curatrice del padiglione, ha raccontato che durante gli ultimi 800 anni, cioè dal rogo della prima strega in Europa, sono vissute 28 generazioni di donne e che lungo questo enorme arco di tempo, la storia di queste donne, le loro oppressioni e la loro ribellione sono condensate in Tremble Tremble. Jesse Jones – che ha fatto ricerche nei tribunali, negli archivi dei parlamenti e nei luoghi del femminismo – ha scelto però di non rappresentare queste sue scoperte documentali, ma di pensare a una possibile alterità. Ha dunque creato un nuovo mito fondativo per il femminismo politico: il grembo di una gigantessa (interpretata dall’attrice Olwen Fouéré) come luogo dell’unica vera Legge.
All’intero del padiglione ci sono delle sculture basate sullo scheletro dell’australopiteco Lucy risalente a 3 milioni e mezzo di anni fa come prove della preistoria da cui trae origine la Legge di Jones. Sullo schermo appaiono i resti di aule di tribunali e di chiese come prove materiali di ingiustizie e violazioni, che vengono trasportate come pesi morti e rimpicciolite nelle mani della strega le cui dimensioni mostrano con evidenza una schiacciante asimmetria. Il corpo sproporzionato della gigantessa non rappresenta in modo generico i corpi politici della resistenza, ma il corpo mitico della resistenza stessa: femminile e materno. Un corpo gigante che sfida l’ottavo emendamento della Costituzione irlandese del 1983 che equipara il “diritto alla vita del nascituro” al “diritto alla vita della madre”, che dà cioè la stessa dimensione al corpo della donna e a quello di un feto e che costringe ogni anno migliaia di irlandesi a partorire anche se non lo vogliono, a espatriare, ad autodeterminarsi nella clandestinità. «In nome degli Dei, non uccidete la madre, o figli», dice la strega. Il suo corpo gigante diventa come quello delle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, quando la giovane donna, finalmente felice di trovarsi in un’aula di tribunale che possa rimettere a posto le cose, ritrova l’assurdo e inizia a crescere di dimensione rovesciando la tribuna della giuria. Ma è anche un corpo che rifiuta le interpretazioni psicanalistiche, perché viene prima, secondo cui il la madre deve essere “abbandonata” in modo che il figlio possa aderire alla legge del Padre.
«Avevo un nome, l’ho dimenticato. Mi chiamano donna cane, mi sta bene. Spingerò, tirerò e ridurrò quest’aula in cenere in una luna piena di sangue. Tesserò il vostro cappio in raso e stregherò il raccolto che seminate. Tutto ciò che è ha il suo altro, come il sopra sarà il sotto. Berrò il vostro vino, guasterò le botti. La vostra casa in rovina ai miei piedi, le mie ossa rotte saranno un’arma. Caos è il pane che mangio. Respingete la legge che ogni uomo segue. Arrendetevi a ciò che non potete conoscere, tutti i vostri processi saranno dimenticati, come il sopra sarà il sotto».
Qualcosa sulla mostra
Nel Padiglione dello Spazio Comune, all’Arsenale, sono esposte diverse opere di Maria Lai. Ci sono i suoi fili applicati sui libri, i suoi telai, le sue mappe astrali e c’è il nastro celeste di Legarsi alla Montagna. Ulassai, nell’Ogliastra dove Lai è nata, è un piccolo paesino fino a poco tempo fa sconosciuto: gli abitanti erano spesso in allarme per la siccità, le frane, le alluvioni. Le persone partivano per l’Argentina o vivevano poveramente di pastorizia, isolate, poco cordiali e radicate in antichi pregiudizi. L’8 settembre del 1981, dopo che le era stato commissionato un monumento ai Caduti, Maria Lai pensò a ben altro: svolse un nastro celeste lungo ventisei chilometri legando, con l’aiuto degli abitanti, tutte le case del paese alla vetta della montagna. Il nastro si annodava tra due case se le famiglie che vi abitavano erano in buoni rapporti e sorreggeva un pane delle feste se tra le due famiglie c’era un legame d’amore. Non lasciava fuori nessuno. Lai raccontò così la nascita del progetto:
«Camminando per le strade del paese, parlo con la gente, ricordo la mia infanzia. Viene a galla una storia, una fiaba che tutti i bambini, da chissà quante generazioni, hanno sentito raccontare. Una leggenda affidata alle interpretazioni di tante voci, nata dalla fantasia di un poeta sconosciuto, un pastore forse o una donna del posto. A Ulassai la creatività si rivela, nel quotidiano, al femminile: il telaio oppure il pane, che per le feste prende forme di uccelli, di fiori e di gioielli. Ho sempre pensato che in questa storia ci fosse lo zampino di una donna per quella atavica civetteria di portare un oggetto frivolo anche al centro di un dramma. Si racconta che una bambina (l’essere più indifeso) fu mandata sulla montagna (il luogo più minacciato) a portare del pane ai pastori (il pretesto meno convincente). Appena giunta, impaurita dalla voce del tuono, trova greggi e pastori rifugiati in una grotta a causa di un temporale. Mentre guardano l’arrivo della pioggia che trascina sassi, vedono passare, portato dal vento, un nastro celeste. Per i pastori questa immagine è una sorpresa fugace, forse per loro un fulmine, ma niente che sia più importante, in quel momento, del pericolo che incombe su di loro. Per la bambina è uno stupore che la trascina fuori dal rifugio, verso la salvezza, mentre frana la grotta con greggi e pastori».
Uno dei nove padiglioni della mostra è quello Dionisiaco. Non so se il titolo sia adatto, penso anzi di no: ma è comunque una delle sezioni che ho preferito. Vi si trovano reliquie di camicie da notte e di indumenti intimi femminili realizzati grazie all’aggiunta di lattice, solidificati come fossero una seconda pelle. Sono di Heidi Bucher, che ha oggettivato questo corredo femminile operando un processo liberatorio. L’artista libanese Huguette Caland si è invece permessa di celebrare il corpo femminile e la sua sessualità: a Beirut negli anni Settanta.
(Huguette Caland, La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva – Il Post)
Con Pauline Curinier Jardin si entra nella caverna di Platone, in una Grotta Profunda, Approfundita: si penetra cioè, letteralmente, in una vagina. In un primo video, visibile anche dall’esterno, c’è Bernadette che dopo l’apparizione divina scopre l’estasi, più orgasmica che religiosa; dentro, un secondo video viene proiettato su un tappeto di umori e liquidi uterini. Zilia Sanchez ha piegato in modo sensuale le tele come fossero lenzuola dedicandole alle Amazzoni. Ma non si tratta di un gioco formale, perché sono espliciti i riferimenti al corpo femminile, ai suoi rigonfiamenti e alle sue fessure. Eileen Quinlan ha invece messo all’opera il proprio corpo e quello di un’amica come soggetti delle foto realizzate dopo la maternità (anche un corpo adulto e materno è un corpo erotico, oggetto del desiderio e soggetto desiderante). Maha Malluh ha creato un ampio pannello assemblato con i piatti usati dalle donne per fare il pane nella sua città, Riyad, esponendo decine e decine di cassette registrate in cui dei predicatori raccomandano il giusto comportamento che le donne devono avere. Kader Attia ha invece collezionato canzoni del mondo arabo interessandosi soprattutto alle voci di transgender: i suoni sono collegati a dei dispositivi che trasmettendo le frequenze disegnano forme con grani di semola.
(Pauline Curnier Jardin, Grotta Profunda, Approfundita -57esima Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva)
Qualcosa di divertente
The Aalto Native è l’installazione nel padiglione della Finlandia, ai Giardini: unisce scultura animatronica e video, è irriverente, fa ridere e de-costruisce religione e stereotipi che stanno intorno alla storia della Finlandia (dura un po’ e dà la possibilità di riposare). I personaggi Geb e Atrum sono due esseri superiori che tornano in visita in Finlandia dopo averla creata milioni di anni prima. E cercano di trovare un senso a come nel frattempo sono andate le cose. I pupazzi hanno sulla testa dei videoproiettori con i quali rendono visibile la loro assurda conversazione.
Se volete due nuovi passaporti, passate per “The Absence of Path” dal padiglione della Tunisia, alle Armerie dell’Arsenale, oppure (ma fino al 15 luglio) al Padiglione dello Stato NSK nella sede di Ca’ Tron dell’Università IUAV: il collettivo artistico Neue Slowenische Kunst (NSK) ha creato un luogo utopico che non si lega ad alcun territorio fisico e non si identifica con nessuno degli stati nazione esistenti. Organizzano ambasciate e consolati temporanei in città come Mosca, Berlino, Firenze, Sarajevo e New York. Dal 1993 rilasciano speciali passaporti.
Qualcosa che non c’è
Il Leone d’Oro alla carriera della 57esima edizione della Biennale di Venezia è stato attribuito a Carolee Schneemann un’artista e pittrice statunitense di 78 anni molto attiva nel campo della performance e della videoarte: è femminista, lavora sulla sessualità e sul genere usando il proprio corpo. La motivazione del riconoscimento: «L’artista promuove l’importanza del piacere sensuale femminile ed esamina le possibilità di emancipazione politica e personale dalle convenzioni sociali ed estetiche predominanti. Attraverso l’esplorazione di una vasta gamma di mezzi espressivi come la pittura, il cinema, la video arte e la performance, Schneemann riscrive una personale storia dell’arte, rifiutando l’idea di una storia narrata esclusivamente dal punto di vista maschile».
Alla Biennale non ci sono le sue opere esposte, ma il premio può essere comunque una buona occasione per scoprire i suoi lavori. Questa qui sotto, ad esempio, è un’opera del 1968 ed è formata da un collage di immagini molto esplicite, girate dall’artista mentre ha un rapporto sessuale con il suo compagno di allora, il compositore James Tenney. Fuses è considerato il primo film erotico femminista, che vuole cioè smantellare la costruzione patriarcale dell’erotismo e celebrare la libertà sessuale.