Si può essere felici per Hillary Clinton perché è una donna?
Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti c’è ufficialmente una candidata donna alla presidenza, Hillary Clinton. E questa non è solo una notizia. È anche una notizia di cui essere molto felici. Solo perché è donna? La risposta è sì, ma contiene un’ovvietà che spesso colpevolmente si trascura.
Quando Clinton ci provò la prima volta, nel 2008, dichiarò esplicitamente che non si stava candidando «come donna» alla Casa Bianca: la sua campagna elettorale non fu certo “femminista”. Mesi dopo, nel discorso della sconfitta, mise finalmente in gioco il suo genere: «Anche se non siamo stati in grado di rompere il soffitto di vetro più irraggiungibile e resistente della storia, grazie a voi gli abbiamo procurato 18 milioni di crepe […] D’ora in poi, non sarà più tanto sorprendente che una donna possa vincere le primarie, né che una donna possa diventare presidente degli Stati Uniti». Otto anni dopo, e fin da subito, Clinton ha ricominciato esattamente da quel punto.
Clinton ha parlato e continua a parlare di parità di retribuzione, di costi di assistenza per l’infanzia, di salute delle donne, di congedi retribuiti. È sostenuta, fin dall’inizio, da Lena Dunham, attrice e regista femminista molto famosa tra le giovani femministe e da molte altre. Ha ottenuto l’appoggio di Planned Parenthood, l’insieme di organizzazioni che difende il diritto all’aborto e all’educazione sessuale, e anche di Naral Pro-Choice America, la prima e più importante organizzazione a favore dell’interruzione di gravidanza e della libera scelta delle donne. A chi, come Bernie Sanders, l’ha accusata di far parte dell’establishment, ha risposto brillantemente con l’argomento della propria differenza sessuale: «Che presentiate me, una donna che cerca di diventare la prima presidente donna degli Stati Uniti, come esempio dell’establishment è una cosa che mi diverte molto».
Durante la campagna elettorale Clinton è stata molto criticata per il suo genere, messo automaticamente in discussione. E non solo lei, ma anche le donne che l’hanno sostenuta e che sono state accusate sia da destra che da sinistra di stupidità in una specie di sbrodolamento sessista per cui il genere non doveva avere alcun valore nel voto di una donna, ma contemporaneamente diventava anche uno dei suoi principali banchi di prova. E sì, in questo brutta storia c’entrano anche i sostenitori di Bernie Sanders, basti vedere la copertina del libro qui sotto (che paura, eh?).
Per molte femministe la parità – cioè il principio quantitativo della parità – funziona come un un trucco e spesso nasconde la cancellazione delle donne (donne in quanto donne, purché piacciano agli uomini). E hanno ragione. Ma è altrettanto vero, ha scritto Jessica Valenti sul Guardian, che solo una società sessista può sostenere che in quella stessa società essere donne è irrilevante e che impegnarsi per avere una rappresentanza femminile ai massimi livelli è “sbagliato”. Negli Stati Uniti le donne costituiscono la metà della popolazione, hanno meno del 20 per cento dei seggi al Congresso, meno del 25 per cento degli incarichi legislativi. Il paese è al 75esimo posto nella classifica mondiale dell’equilibrio di genere della rappresentanza politica, più in basso rispetto alla maggior parte dei paesi industrializzati.
In questo preciso contesto, dice ancora Valenti, è piuttosto insolito che nel momento in cui gli Stati Uniti hanno l’opportunità di eleggere la loro prima presidente donna, l’idea che il genere possa contare qualcosa venga giudicato superficiale (nel migliore dei casi) o patetico e infantile (nei peggiori). Votare una donna in quanto donna viene spesso considerato un argomento pre-politico ed è stato molto utilizzato dai detrattori di Clinton durante la campagna elettorale: “una cosa da donne” ha detto qualcuno, “il grado zero del sessismo” ha detto qualcun altro pensando di fare scuola di femminismo. Ma è molto infantile e tattico pensare che le donne votino le donne solo in quanto donne. Altrimenti avremmo visto schiere di femministe dietro a Sarah Palin. Ecco, no.
Durante la campagna elettorale qualcuno ha invitato Clinton ad essere più femminile (sorridi, no?) o pensa che sia riuscita ad essere nominata perché non è una “vera donna” e ha caratteristiche più maschili che femminili: insomma ce l’avrebbe fatta perché sembra-un-uomo. Lo stesso argomento, in varie forme, viene usato sistematicamente ogni volta che una donna ce la fa, e non solo in politica. E viene usato da chi pensa che ci siano stereotipi e caratteristiche “naturali” che meglio si adattano alle donne, a cui vengono poi associate senza via d’uscita solo alcune capacità e competenze. Ma questa è solo un’altra prova dell’astio che esiste verso le donne, e in particolare verso quelle ambiziose. «Non ci è permesso di esistere per i nostri meriti, ma solo come estensione di maschi di potere» (Lena Dunham, a proposito di Clinton).
Un’ovvietà: la vittoria alle primarie di Clinton e la sua candidatura non significano che il lavoro è fatto e finito, così come l’elezione di Obama, pur avendo avuto un significato simbolico fortissimo, non ha certo risolto i problemi di razzismo negli USA. Comunque oggi, per far felici tutti, va così:
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