Playboy senza nudi è una vittoria per il femminismo?
Playboy, una delle riviste per adulti più famose al mondo, smetterà di pubblicare fotografie di donne nude a partire dai primi mesi del prossimo anno. È una vittoria per il femminismo? No, nonostante possa sembrare un progresso notevole.
La decisione della rivista ha a che fare con il calo delle vendite e evidentemente «il vecchio sessismo non fa più soldi», scrive Jessica Valenti sul Guardian: «La nudità non è mai stata il vero problema delle femministe con Playboy, perché non c’è niente di sessista in sé nelle immagini di donne nude. L’idea che gli uomini abbiano un diritto su quelle donne – un’idea che si è estesa nella cultura pop indipendentemente dalla pornificazione in buona fede – è invece il problema. Dopo tutto, fa veramente la differenza che una donna sia vestita o sia nuda se poi ogni sua rappresentazione continua ad essere sessualizzata?» No, appunto.
Sostituire delle donne in topless con delle donne in reggiseno non dimostra una grande presa di coscienza, non dimostra che gli uomini rispettino di più le donne né che le femministe abbiano vinto e concluso una giusta battaglia. Non sono certo un paio di tette il problema, ma l’oggettivazione del corpo femminile e la rappresentazione sessista delle donne nei media in generale.
Rachel Hills, su Elle, aggiunge qualche argomento. Playboy è sempre stata scritta per un particolare tipo di uomo, dice. Hugh Hefner, nell’editoriale del 1953 alla vigilia della pubblicazione del primo numero della rivista diceva: «Ci piace miscelare un cocktail e uno o due stuzzichini, mettendo un po’ di buona musica nel grammofono, e invitando una donna per una piacevole discussione su Picasso, Nietzsche, Jazz, sesso…». Playboy pubblicava racconti di Haruki Murakami, interviste con Malcom X, Martin Luther King, il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter e Vladimir Nabokov. L’uomo ideale di Playboy era intelligente e un po’ pretenzioso, un uomo che godeva delle sue donne con lo stesso atteggiamento con cui beveva un buon vino o leggeva della “buona letteratura”. «Il problema per Playboy è che, a partire da come le relazioni di genere tra uomini e donne si sono evolute nel corso dell’ultimo mezzo secolo, questo tipo di uomo educato, affabile è anche esattamente il tipo di uomo che dovrebbe sentirsi in imbarazzo con in mano una copia di Playboy. Nel 1965, la lettura di Playboy lo aveva fatto sentire liberale e cosmopolita. Nel 2015 lo fa solo sembrare poco più che un pervertito». Rachel Hills dice che se nella notizia si vuol vedere una piccola vittoria femminista è proprio in questa trasformazione della virilità che potrebbe essere trovata. «Il che non vuol dire però che siamo fuori dell’era dell’oggettivazione. Non è che l’aspirante lettore di Playboy non sia interessato alle immagini sessuali. Preferisce solo consumarle nella privacy del suo portatile, piuttosto che acquistarle pubblicamente dal giornalaio».
C’è infine un’ultima questione e ha a che fare con lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing: non è un fenomeno recente, ma continua a produrre e a inventare nuovi modelli a cui uniformarsi che creano a loro volta degli stereotipi che influiscono concretamente sulla vita delle donne, ma anche degli uomini. Quello delle donne-che-amano-i-libri, per poi venderglieli, ne è un esempio. Ce ne sono altri, compreso quello di un governo fatto da un uomo con metà donne (donne che piacciano a quell’uomo). E sì, penso sia questo il vero problema per la nuova generazione delle femministe. Non il maschilismo “cattivo” e troglodita (come mi suggeriva qualche tempo fa Luca Sofri), ma quello che lui stesso ha definito «un pastone culturale fatto di paternalismo e idee da rotocalco» che ricicla ideali e rivendicazioni femministe per un altro fine. Basti pensare a come la libertà delle donne è stata usata da stilisti e case di moda, da aziende di cosmetici o da tutto un filone di comunicazione basato sulla violenza di genere: il meccanismo – che a volerci vedere del buono è comunque un segno che gli ideali di liberazione della donna sono stati recepiti – non è comunque un fattore di reale uguaglianza per le donne.
Playboy, ma anche Esquire, GQ o il nuovo Maxim con una editor donna e un uomo per la prima volta sulla sua copertina rientrano in questa logica. Queste pubblicazioni non stanno facendo una battaglia per la parità tra i sessi, ma stanno semplicemente reagendo a una nuova domanda: una vittoria infinitesimale per il femminismo, e un balzo gigantesco per Playboy, scrive il Wall Street Journal. Playboy, oltre all’assenza di nudi, tra i suoi cambiamenti ha annunciato una rubrica “sex-positive feminist” movimento nato negli anni Ottanta all’interno del dibattito femminista sulla pornografia che non vede nel sesso una fonte di oppressione maschile, ma una forma di liberazione in cui rientrano discussioni su prostituzione, sfruttamento sessuale e così via. Il timore è che l’annunciata rubrica rubi semplicemente l’etichetta del “sex-positive feminist” e si trasformi in una facile esaltazione delle gioie del sesso, che poco avrà a che fare con un dibattito invece serio e complicato. Si vedrà. La domanda, nel frattempo, resta sempre la stessa: è una vittoria per il femminismo? No.