Jobs Act: il futuro è negli Anni Cinquanta
Nella legge delega approvata ieri al Senato c’è una parte che fa esplicito riferimento alle donne. Si parla, correttamente, di indennità di maternità, di incentivazione al lavoro femminile, di flessibilità, di telelavoro e di conciliazione. Ma dove si parla di conciliazione, non compare nemmeno una volta la parola “corresponsabilità” o un concetto simile alla corresponsabilità. Quella parte del testo parte bene, ma scivola, nel giro di una sola riga, dalla generica formula “cure parentali” a considerare la cura parentale come prerogativa femminile:
«Allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, il Governo è delegato ad adottare» ecc.
Sembrerebbe esserci un’apertura nella parola “generalità dei lavoratori”, ma non è chiaro se questo significhi affiancamento dei padri alle madri nel lavoro di cura o generalizzazione delle regole esistenti con inclusione di chi prima era escluso. E visto l’andamento del testo, la prima ipotesi sembra lontana. Quello che resiste, in questa impostazione, è dunque un’idea molto antiquata: l’idea di un sistema familista in cui il welfare è ancorato alla famiglia (cioè alla donna) a cui lo Stato offre il suo aiuto. Decisamente meno Anni Cinquanta sarebbe l’idea di un welfare inteso come servizio alla persona e basato alle sue reali necessità.
Visione tradizionalissima anche il fatto di considerare come neutri tutti gli altri interventi in materia di lavoro, dalle politiche attive e passive alle modifiche del contratto e delle tutele sul lavoro. Andando a vedere i Ministeri coinvolti, il ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri che ha ad interim la delega alle pari opportunità dopo le dimissioni dell’ultima ministra compare solo nella parte dedicata alla tutela della maternità e alla conciliazione. Le donne sono la vera grande novità del mondo del lavoro nell’ultimo mezzo secolo: il lavoro femminile non è un lusso, aumenterebbe il Pil, genererebbe un indotto occupazionale attraverso l’esternalizzazione di servizi alla persona, aumenterebbe la natalità. Insomma, tutte ottime ragioni per metterlo al centro di una riforma sul lavoro. La necessità di adottare la prospettiva di genere negli interventi legislativi si può condividere oppure no (un po’ stupidamente, contro tutte le buone ragioni di cui sopra), ma non si dubiti del fatto che la posizione di questo governo è “oppure no”. Si tratterebbe, come dice la scrittrice statunitense Rebecca Solnit, non solo di cambiare, ma di cambiare anche l’immaginario del cambiamento. Oppure no, appunto.
Infine: l’articolo 18. Il testo della legge dice che in caso di licenziamento discriminatorio o nullo perché ha violato una serie di norme fondamentali (come quelle a tutela della maternità e della paternità, degli orientamenti sessuali, della religione, delle opinioni politiche, dell’attività sindacale e così via) le tutele resteranno quelle previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: si continuerà ad applicare quella che viene definita “tutela reale piena”. Il o la dipendente (visto che nella maggior parte dei casi la discriminazione riguarda le donne) saranno rimesse al loro posto di lavoro nelle condizioni di pre-licenziamento (il cosiddetto reintegro). Il problema è che molto spesso i licenziamenti discriminatori vengono mascherati con licenziamenti economici. E per quanto riguarda il licenziamento economico, il testo appena approvato contiene delle sostanziali modifiche. Scompare, infatti, la possibilità del diritto al reintegro per i licenziamenti di natura economica, quelli illegittimi perché non c’è un giustificato motivo oggettivo alla base (non c’è insomma una effettiva e provata situazione economica o organizzativa dell’azienda che lo giustifichi).
Dire che “comunque” la tutela del licenziamento discriminatorio verrà mantenuta è una trappola. Il divieto di licenziamento discriminatorio è certamente un principio fondamentale, ma ha una rilevanza pratica molto scarsa, perché riconoscerlo e dimostrare il motivo che ne sta alla base (cioè la discriminazione) è complicatissimo, quasi diabolico. Per tre motivi principali:
1 – spetta al lavoratore o alla lavoratrice indicare i fatti a sostegno della sua tesi.
2 – quello che va dimostrato è che sussiste da parte del datore di lavoro l’elemento intenzionale, è prevista cioè la dimostrazione di elementi soggettivi. Ora, fuori dai casi di scuola in cui nella lettera di licenziamento il datore di lavoro scriva che mi voglia licenziare perché ho rifiutato una sua avance, capite anche voi come la faccenda sia complicata.
3 – un esempio: viene licenziata una persona al posto di un’altra e questo perché è una donna che si è appena sposata, ha una madre o tre figli di cui occuparsi o ha rifiutato un’avance. Quella lavoratrice potrà impugnare il licenziamento, ma perché venga riconosciuto come discriminatorio, dovrà essere in grado di dimostrare che il motivo stesso della discriminazione ha avuto “rilevanza determinante”. Questo significa che se il datore di lavoro riuscirà a dimostrare invece la validità di un’altra ragione posta formalmente a fondamento del licenziamento (per esempio che per esigenze aziendali doveva sopprimere un posto che risultava in esubero) questa seconda ragione prevarrà comunque sui profili discriminatori contestati. La motivazione discriminatoria alla base del licenziamento, passerà in secondo ordine.
Dire infine che la tutela “reale” viene mantenuta almeno per le ipotesi di licenziamento discriminatorio avrebbe indirettamente un effetto negativo. Significa diffondere l’idea che le donne sono tutelate in modo speciale ed eccezionale rispetto alla regola. Certo, i licenziamenti discriminatori riguardano tutte e tutti, ma di fatto, riguardano soprattutto le lavoratrici. Le quali sarebbero dunque le più colpite: di fronte a una possibile assunzione verrà insomma assunto chi poi potrà essere licenziato con meno fatica.
(parte di questo articolo è stata pubblicata sul manifesto lo scorso 29 settembre)