Medea non ha ucciso i suoi figli
Perché l’odiosità della profezia di sventura (“fare la Cassandra”) si è attaccata proprio al nome di una donna e non a quello di un uomo, il sacerdote troiano Laocoonte, per esempio, che come Cassandra metteva in guardia e annunciava disastri? E perché Medea, guaritrice ed esperta di magia, emersa da epoche in cui i figli «erano il bene supremo di una tribù», proprio lei avrebbe ucciso i propri figli?
Questa versione dei fatti, spiega la scrittrice tedesca Christa Wolf (morta il primo dicembre di tre anni fa), furono il «parto di una mente patriarcale», l’esito di un’operazione originaria che (replicata all’infinito) ha tracciato non solo la via delle idee, ma anche quella dell’intera tradizione occidentale in tutte le sue forme (non si dubiti quindi del potere della filosofia né di quello della letteratura).
Christa Wolf prese Medea e Cassandra e rovesciò da capo a piedi le vicende mitologiche che ancora oggi conosciamo affidandosi non alla fantasia, ma a un accurato lavoro storico e filologico, andando alla ricerca delle fonti pre-euripidee che confermavano tutta un’altra storia. I romanzi si intitolano “Medea. Voci” e “Cassandra”. Su come arrivò a scrivere il primo ho qualcosa da dire.
Chi è Medea?
I miti greci, si sa, sono un groviglio di stratificazioni e versioni differenti, spesso contrastanti e quello di Medea è tanto arcaico che persino Omero lo definisce “antico”. Il nome di Medea è legato, almeno a partire da un preciso momento storico (le Argonautiche di Apollonio Rodio, III sec. a.C.) alla saga degli Argonauti e alla conquista del Vello d’Oro. Ma è nel momento in cui si affronta la vicenda della donna a Corinto che si devono inevitabilmente fare i conti con la tragedia di Euripide. Il quale distorce il mito in modo eclatante.
Quando la tragedia di Euripide si apre, Medea e Giasone hanno avuto due figli ed è già accaduto il fatto: l’abbandono di Medea. Arriva la notizia che il re di Corinto (Creonte) vuole esiliare Medea e i suoi bambini dalla città per far sposare Giasone con la figlia Glauce e offrirgli la possibilità di successione al trono. Intanto si sentono provenire, dall’interno della casa, grida di dolore: Medea compare sulla scena, e piange le proprie sventure chiedendo alle donne del Coro il loro silenzio nel caso che lei riesca a trovare un modo di vendicarsi per l’ingiustizia subita. Poi, fingendo rassegnazione, chiede a Creonte, e il re glielo concede, di poter rimanere a Corinto fino a sera: ora ha tutto il tempo di organizzare la vendetta.
In un colloquio con Giasone, Medea ricorda tutto quello che per amore di lui ha fatto, dall’aiuto in Colchide all’uccisione di Pelia, ma Giasone non si lascia muovere dalle sue parole. E la donna, sempre più ferma nei suoi intenti, decide di assicurarsi l’aiuto di Egeo, re di Atene giunto improvvisamente a Corinto, che le promette ospitalità in cambio di un aiuto per la sua sterilità.
Medea ha ormai deciso la sua vendetta: invierà in dono a Creusa per mano dei suoi figli una veste e un diadema, oggetti che i suoi poteri di maga hanno trasformato in strumenti di morte, poi ucciderà i propri figli per infliggere la punizione più terribile a Giasone e, infine, si rifugerà ad Atene.
Fingendosi persuasa dalle parole di Giasone che la invita ad accettare serenamente il proprio destino, ottiene da lui il permesso che i figli possano andare ad offrire il dono nuziale alla nuova sposa per chiederle di non essere, almeno loro, cacciati da Corinto. La prima parte del piano si sta per realizzare.
In un lungo monologo, Medea combatte un’estenuante battaglia contro il proprio affetto di madre, ma alla fine, la tragedia si compie. Un messo giunge ad annunciare l’atroce morte di Creonte e della figlia, Medea ne gioisce e non esita: “Mie care, tutto è deciso: ucciderò i miei figli, subito, e me ne andrò da questa terra”. Scompare con i figli nella casa e si sentono le loro grida. Nel frattempo arriva sulla scena Giasone, che ancora non sa nulla. Il Coro lo informa e lui si precipita sul luogo della strage: Medea è già sul carro alato del Sole e non concede al padre nemmeno di toccare i corpi dei figli morti. Giasone la maledice, ma rimane solo a piangere la sciagura che lo ha colpito.
Un’altra storia
Dopo l’uccisione di Glauce e Creonte sono presenti, in altre fonti, principalmente due varianti sulle azioni di Medea di cui abbiamo notizia. Nella Guida della Grecia Pausania riporta la versione di Eumelo: Zeus, ammirato per il coraggio e le risorse di Medea, se ne innamora, ma Medea lo respinge. Era, gliene è grata e le chiede di sacrificare i suoi figli nel tempio, in cambio della loro immortalità. Medea obbedisce e poi fugge sul carro del Sole trainato da serpenti alati.
Creofilo nel suo poema La presa di Ecalia dice che Medea, dopo aver assassinato Creonte, fugge ad Atene, facendo rifugiare i figli nel tempio di Era, ma i Corinzi, furibondi, li catturano e li lapidano a morte.
Ora, proprio l’elemento per il quale la tradizione si divide in due varianti ben precise, ossia la morte dei figli di Medea, consente di valutare la scelta di Euripide: scartata la versione che attribuiva l’assassinio dei bambini ai Corinzi, il tragediografo preferisce rimaneggiare la variante secondo la quale fu Medea stessa a commettere l’infanticidio, modificandone però l’intero significato e attribuendo alla donna una precisa e autonoma volontà d’azione. In Euripide (che pare i Corinzi corruppero con quindici talenti d’argento perché li assolvesse da ogni colpa), Medea uccide i propri figli per infliggere a Giasone l’estremo dolore e tale versione dei fatti è determinante per tutta la tradizione successiva. La notizia del compenso non è comunque molto attendibile e va letta nel contesto di un’ostilità al poeta in un momento in cui l’accusa di essere filo-corinzio era piuttosto grave, essendo Corinto alleata di Sparta. D’altra parte le ragioni che motivano Euripide, come vedremo, sono ben altre.
Il movente (quello di Euripide)
A partire dalla scoperta dell’esistenza di altre versioni, Christa Wolf va a fondo nella sue ricerche. Secondo la tradizione più antica, ma lo si ricava semplicemente consultando un vocabolario, l’etimologia del nome Medea rimanda al verbo greco médomai che a sua volta deriva dalla radice indoeuropea medha: Medea è colei che dà buoni consigli ed è colei che medica e guarisce. Ovunque si guardi nelle versioni tramandate del mito, ci si imbatte sempre in stratificazioni di elementi che risalgono a epoche diverse e a sistemi di valori diversi, e «nello strato inferiore, quello più arcaico, si trova sempre una donna forte e indipendente», dice Wolf. Numerosi indizi e fonti rimandano ad un’origine divina della donna e nella stessa tragedia di Euripide, ne rimangono tracce evidenti, anche se la loro accezione è negativa.
Non bisogna dimenticare che mentre Euripide scrive le sue tragedie, Atene sta vivendo dal punto di vista filosofico la sua stagione più felice, e non solo per la presenza di personaggi come Socrate e Platone, ma per la presenza dei Sofisti. E a questo proposito basterebbe menzionare la tesi di Nietzsche quando, nella Nascita della tragedia, indica proprio in Euripide la fine dell’equilibrio fra apollineo e dionisiaco e denuncia la sua piena appartenenza al chiaro logos dei Sofisti: un logos trascendente, atemporale, immutabile. In un luogo e un tempo ben precisi, quindi, avviene la detronizzazione della Grande Madre, il trionfo dell’ordine simbolico patriarcale e l’interruzione della genealogia femminile. L’Altra, intesa come reale alterità, separata e identica a sé, diviene l’altra dall’uomo occupando i luoghi che le vengono assegnati e che sono riconducibili a due principali stereotipi: madre / moglie o prostituta. Il tutto, dunque, diviene faccenda da e per soli uomini. Ma non finisce qui: il presunto Padre, con tecnica mimetica, espropria la potenza materna per annullare ogni traccia di nascita uterina e così mettere al mondo il (suo) mondo.
Una volta rapinato e rinnegato, il corpo femminile viene occultato. La legge del Padre stabilisce i ruoli, il senso, una posizione all’interno del suo ordine ed elimina tutti i significati adiacenti, tutte le oscillazioni di cui si alimentano le mitologie, i simboli, le allucinazioni. Sogni, visioni, miti, corporeità, comunità di sangue, generazione materna, sono tutti elementi che attingono a quello sfondo pre-umano, umido e oscuro che l’uomo, non potendo eliminare, ha espulso in quanto deinón, spaesante («la magia di cui ella è in possesso, viene incanalata, come la folgore dopo l’invenzione dei paralumi e delle centrali elettriche» dice Simone de Beauvoir nel “Secondo sesso”).
Medea rappresenta una “figura tramite” in cui vive la forma del matriarcato che tramonta e viene svalutato dal patriarcato; in lei, a partire da Euripide, la realtà mitica che rappresenta, è già personalizzata e negativizzata. Qual è l’obiettivo? Procreare senza dover passare per il corpo materno: non a caso Euripide fa dire a Giasone: «I mortali dovrebbero poter generare i figli in altro modo e non dovrebbe esistere la razza femminile. Così per gli uomini non ci sarebbe più alcun male».
Ciò che qui si mostra è quindi banalmente la paura della diversità, l’invidia della potenza generatrice del corpo femminile e il desiderio del suo controllo. Medea è proiezione delle paure maschili e perciò straniera. Si può dire che all’interno della tragedia e fino a noi, diventi altra da sé, cioè una barbara, una folle, un’isterica e un’assassina. Non solo: Medea diviene una donna che si infiamma d’amore per l’eroe, che lo segue tradendo la sua stessa stirpe e che usa la sua magia a vantaggio di lui. Inoltre sarà gelosa della rivale tanto da doverla eliminare con l’inganno, proprio lei che in quanto donna del matriarcato non conosce né la monogamia né ovviamente la gelosia. Medea arriva ad uccidere i figli come se, in assenza del padre, loro non avessero più alcuna ragione di esistere. E infine, facendole assumere i giudizi misogini degli uomini e la posizione che essi hanno stabilito per le donne, Euripide le mette in bocca queste parole: «Noi donne siamo per natura incapaci di buone azioni, ma sapientissime artefici di ogni male». Un delitto perfetto.