Se una è femminista
Quando sono entrata per la prima volta in quell’aula di filosofia, la professora (sì, voleva essere chiamata così) si rivolgeva alla classe usando il plurale femminile. Ogni volta, si alzava un virile brusio di protesta. Alla fine della lezione ha chiesto a noi ragazze perché quando qualcuno parlasse includendoci in un plurale maschile non avessimo la stessa reazione. Ho trovato una risposta e sono diventata quella che per brevità chiamiamo “una femminista”.
Gli stereotipi intorno al femminismo, le credenze e le idiozie, danno certamente la misura del campo di battaglia e parte del mio tempo lo passo a rispondere, a spiegare, a incassare e a rilanciare: è un lavoro faticoso, frustrante e noioso. Ma non potrei fare altrimenti. Penso quindi sia utile costruire un luogo (questo post, che cercherò di tenere aggiornato, anche attraverso cose che ho già scritto altrove o cose scritte da altre) in cui dare una volta per tutte le risposte alle-solite-risposte e a cui poter rimandare ogni volta se ne presentasse l’occasione (per fatica, frustrazione e noia).
Le femministe odiano gli uomini
Ed è per questo che gli uomini odiano le femministe. Si chiama “misandria”, è il contrario di misoginia ed è l’argomento che gli uomini usano fin dagli inizi del movimento di liberazione della donna contro il femminismo stesso. Un falso argomento, anche se (dopo averlo negato e ridicolizzato per anni) mi sono resa conto che contiene una parte di verità.
Se una è femminista non le piacciono certi uomini: quelli sessisti, quelli che pensano ci sia una gerarchia tra i generi, quelli che si rivolgono alle donne che non conoscono con formule del tipo “tesoro” o cose simili, quelli che le molestano per strada, che vogliono dominarle, addomesticarle e controllarle in una relazione. Potrei proseguire. Ma penso agli uomini a cui, come me, non piacciono gli uomini dell’elenco: sono uomini che piacciono a una femminista. Sono invece i sostenitori della frase le-femministe-odiano-gli-uomini ad odiare davvero gli uomini, identificandoli tutti, in un sol colpo, con dei misogini.
Le femministe non hanno senso dell’umorismo
Non è questione di avere o non avere senso dell’umorismo. Se una è femminista le stanno a cuore degli argomenti che non sono particolarmente divertenti: il sessismo, le molestie, la violenza, lo stupro, il diritto all’aborto, la disparità. Se c’è qualche cosa su cui una femminista ride moltissimo sono affermazioni come quella che le-femministe-non-hanno-senso-dell’umorismo. La giornalista statunitense Amanda Hess spiega che cos’è la misandria ironica (una tendenza molto di successo tra le donne sui social network). È una dimostrazione per assurdo, efficace per almeno tre motivi: spinge gli argomenti sugli stereotipi attribuiti alle femministe nelle loro trincee più estreme e ridicole, è una strategia leggera per far circolare soprattutto tra le più giovani questioni e idee femministe molto radicali ed è liberatoria perché in un battito d’ali toglie chi la sceglie dalla paradossale posizione di dover spiegare qualcosa a qualcuno che quel qualcosa non sa cosa sia.
Le femministe sono sempre incazzate
A rispondere, ci ha pensato Laurie Penny: «Quelli a cui interessa mantenere lo status quo preferirebbero vedere le giovani donne che agiscono, come dire, nel modo più grazioso e piacevole possibile; anche quando protestano». Sostenere che una femminista è sempre incazzata (o brutta, o con i peli) è una difesa per preservare il sistema che il femminismo potrebbe mettere in discussione. Da qui l’operazione di voler glassare il femminismo per renderlo «un accessorio desiderabile, gestibile al pari di una dieta disintossicante».
Scrive Penny: «Purtroppo non c’è modo di creare una “nuova immagine” del femminismo senza privarlo della sua energia essenziale, perché il femminismo è duro, impegnativo e pieno di rabbia (giusta). Puoi ammorbidirlo, sessualizzarlo, ma il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Rendere il femminismo più “carino” non lo renderà più facile da digerire».
Le femministe non cucinano
Se una è femminista cucina, sparecchia, stira, pulisce e porta il piatto a tavola. Sa anche che non è l’unica in grado di poterlo fare e che la rappresentazione delle donne unicamente come soggetti che cucinano, sparecchiano, stirano, puliscono e portano il piatto a tavola è un fatto che storicamente si può collocare e per cui c’è un colpevole.
Le femministe ce l’hanno con le donne che non la pensano come loro (variante: sono le donne ad essere le peggiori nemiche delle donne)
Se una è femminista per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, di pensare e di agire in consonanza con i propri desideri e, prima ancora, libertà di desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, ad essere traiettoria di sé stessa, a dire e a decidere quello che la riguarda: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse», scriveva Mary Wollstonecraft nella Rivendicazione dei diritti della donna e siamo nel 1792.
Se una è femminista sa che l’altra è necessaria, come compagna di strada o come interlocutrice. Dà supporto alle altre donne senza mai sminuirle o giudicarle (anche se non è d’accordo con quello che dicono o con le scelte che fanno). Sa che non ci sono buone e cattive femministe e che la relazione è il luogo privilegiato della libertà. Il movimento femminista ha al suo interno molti pensieri, spaccature e diversità. «Finché non avremo risolto alcun problema o differenza individuale e interna non dovremmo forse permetterci di affrontare l’oppressione o rivendicare dei diritti?» La domanda è ridicola e si chiama tentativo di depistaggio.
Ormai siamo tutti uguali 1
Il primo errore sta in quella “i” di “tutti” e “uguali” e non è solo linguistico. C’è una bella poesia di Muriel Rukeyser che dice:
«“Molto tempo dopo, vecchio e cieco, camminando per le strade, Edipo sentì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?”. “Avevi dato la risposta sbagliata,” disse la Sfinge. “Ma fu proprio la mia risposta a rendere possibile ogni cosa.” “No,” disse lei. “Quando ti domandai cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre alla sera, tu rispondesti l’Uomo. Delle donne non facesti menzione.” “Quando si dice l’Uomo,” disse Edipo, “si includono anche le donne. Questo, lo sanno tutti.” “Questo lo pensi tu”, disse la Sfinge».
Il linguaggio non è qualche cosa di “naturale”, è una costruzione che ha un soggetto e che rimanda a un sistema ben preciso. Quel soggetto ha un sesso e quel sistema (di potere), pure: è evidente nell’uso comune del plurale maschile per includere tutti e tutte, nella scelta di assumere l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma allo stesso tempo come paradigma universale dell’intera specie (“l’Uomo”) o nella scelta dell’espressione “suffragio universale” applicata per lungo tempo (anche da giuristi e filosofi) a tutti gli uomini con esclusione delle donne.
La finzione dell’universale neutro in cui la differenza femminile scompare e viene inglobata (dal due all’uno) è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale. Questo aveva voluto mostrarmi la mia professora attraverso un uso (sovversivo) del linguaggio. Professora suona male? Mettere alla fine della parola una “a”, è già accaduto per molti mestieri e professioni consolidate: infermiera, maestra, operaia, modella, cuoca, segretaria. Mestieri che non suscitano alcuna obiezione. Ci siamo già passat* e siamo sopravvissut*. Iniziamo ad usare le forme corrette e ci suoneranno benissimo.
Ormai siamo tutti uguali 2
Il secondo errore di questa affermazione sta nel concetto di parità e la risposta all’obiezione “siamo tutti uguali” è sì e no. Se una è femminista sa che la parità e l’emancipazione possono essere delle trappole. Il cosiddetto femminismo di stato ha interpretato il movimento delle donne nel senso di una domanda di parità mettendo al centro dell’azione la spartizione d’ufficio del potere tra donne e uomini (pari opportunità, “quote rosa”, donne come uomini e molto spesso donne-che-piacciano-agli-uomini). Quando un ruolo tradizionalmente maschile viene occupato da una donna, una femminista sa che non va considerata una conquista (o almeno non sempre).
Una femminista non è contro l’uguaglianza, ci mancherebbe, ma la mette in rapporto con la libertà. E la libertà femminile non si misura sulle realizzazioni che sono storicamente maschili. Non ricordo dove ho letto questo esempio, ma funziona: se gli uomini reagiscono facendo battute poco rispettose come hanno fatto alcuni membri dell’Assemblea Costituente nel 1945 quando in aula sono entrate le loro colleghe, il problema non si risolve comportandosi come se nell’aula entrassero degli uomini. Le rivendicazioni paritarie nello spazio pubblico funzionano come annullamento della differenza femminile e il trucco della quantità è l’inadeguata risposta maschile al cambiamento innescato dalla rivoluzione femminista. Ecco perché non è mai una buona misura: le dimensioni non contano, non si dice così?
Ormai siamo tutti uguali 3
Il terzo errore sta nel dire “ormai”. Se una è femminista sa che non deve mai, mai, mai e poi mai abbassare la guardia. Ci sono donne verso cui essere riconoscenti, che hanno combattuto e sono morte per la maggior parte dei diritti che noi abbiamo oggi. Non è finita e ogni diritto non è mai per sempre. Il solito esempio? In Italia esiste una legge – frutto delle lotte – che garantisce la possibilità di abortire liberamente e gratuitamente: di fatto, l’enorme presenza di medici obiettori, impedisce a migliaia di donne di poter scegliere per sé. La politica dei diritti è certamente importante, tenendo però presente che la conquista di un diritto si può perdere senza che sia avvenuta una vera trasformazione. (“Il re è morto. Viva il re”, si diceva in Francia per annunciare al popolo la morte del re e, contemporaneamente, l’avvento del suo successore). Ecco funziona un po’ così.
Le femministe si occupano solo di donne
Non è vero. Se una è femminista sa che la sua libertà cambia la vita di tutti. Sa anche che la misoginia (basata sulla convinzione che mascolinità e virilità siano superiori) colpisce anche gli uomini: si esprime nel bullismo di chi si sente più maschio di un altri o negli insulti omofobici. Nell’ambito della violenza domestica, che colpisce di sicuro più donne che uomini, vanno però anche considerati gli uomini (quelli ad esempio che sono nuovi fidanzati, compagni o mariti e che muoiono o ricevono violenza per mano degli ex fidanzati, compagni o mariti. Ci sono insomma due tipi di aggressioni: maschio-femmina e maschio-maschio, entrambe sono espressione di misoginia ma solo una è nominata e accettata come tale.
Allora, non posso aprirti la porta o farti un complimento?
Se una è femminista è contro lo sciovinismo e le molestie. Non contro le buone maniere e i complimenti-che-siano-complimenti: apostrofare una donna quando cammina per strada dicendole “ciao bella” non lo è. Scrive Amanda Marcotte in un articolo su Slate tradotto dal Post:
Puoi aprire la porta se sei il primo a raggiungerla. Assicurati di tenerla aperta per chiunque passi dopo di te, uomini, donne e anche animali domestici.
Non puoi correre per sorpassare una donna e arrivare per primo alla porta, così da aprirla per lei. Ricorda la regola d’oro: il primo che arriva alla porta apre la porta. È facile capire quando sei arrivato per primo alla porta: quando la porta è chiusa e non c’è nessuno tra te e la porta.
Anche le femministe oggettivano gli uomini
Due torti non fanno una ragione, scrive la giornalista Laura Bates. E c’è un motivo per cui le persone che sostengono questa tesi citano quasi sempre la pubblicità della Diet Coke: perché non ci sono molti altri esempi memorabili da fare. Sì, anche gli uomini sono oggettivati, ma non così tanto e non così spesso, come avviene invece per le donne. Quindi le due cose non sono paragonabili e non hanno, soprattutto, lo stesso impatto sulla società e sulla cultura. L’operazione che sta dietro questa argomentazione si può riassumere nella formula “male tears”, “lacrime maschili”: si verifica quando un uomo, per ribattere ad un qualsiasi argomento legato al genere, prende il posto della vittima (“ma anche le donne lo fanno”). Detto questo, ogni volta che un essere umano – indipendentemente dal sesso – è considerato come somma delle parti del suo corpo, questo è un problema. Anche per una femminista.
Non sono una femminista, ma sostengo le donne e la loro libertà
“Femminista” non è una parolaccia, è già preoccupante che ci siano molte idee sbagliate o idiote su quello che il femminismo è o non è. Che i detrattori del movimento delle donne siano delle detrattrici è particolarmente dannoso. Se difendi la libertà delle donne allora sei una femminista. E non te ne devi vergognare. Sei in ottima compagnia.