Tornando a casa, oggi
Stavo tornando da Livorno, avevo deciso di passare da Tirrenia, dal lungomare, così, guidando e guardandomi attorno, avrei rinverdito, forse con piacere, i ricordi di vacanze di infanzia.
La Volkswagen Golf era ferma sul lato opposto della carreggiata. Orientata in senso opposto al mio.
Era finita fuori dalla strada, vicino ad una panchina, le ruote anteriori su un aiuola, il muso contro lo spigolo di una cabina telefonica.
Ricordo di aver pensato a quella cabina telefonica e di aver immaginato lo spavento che avrebbe potuto avere una persona, qualcuno, se si fosse trovato all’interno, a telefonare, al momento dell’impatto.
Una ragazza con una minigonna corta e delle scarpe a zeppa, i capelli biondi, lunghi in due blocchi ondulati che dal collo scendevano sul petto, una canottiera colorata, forse a fiori, stava in piedi, si mordeva le unghie di una mano. Mi sono chiesto come facesse a non avere freddo.
Lo sguardo era fisso davanti a sé. Quello sguardo guardava a terra, qualche metro più avanti rispetto alla posizione degli occhi, dei piedi.
La ruota anteriore sinistra della Golf veniva intanto presa a calci da un giovane alto, muscoloso, tatuato, abbronzato. Capelli neri a boccoli di provincia di galera scendevano sul viso e le spalle. I capelli ondeggiavano quando lui prendeva il movimento utile al calcio, il piede impattava sull’auto, lui caricava di nuovo, imprecava, i capelli si muovevano.
Aveva una maglia a maniche corte. Mi sono chiesto come facesse a non avere freddo.
Il sottile piacere dei fragili quando vedono i forti in difficoltà: quel bel coglione muscoloso, era evidente, aveva tentato un’inversione a U calcolando male il raggio di sterzata. Probabilmente, sicuramente per impressionare la ragazza a moda anni Settanta che lo accompagnava, aveva accelerato troppo e probabilmente le gomme avevano fatto un grido sull’asfalto e il volante una reazione inversa, una ribellione all’arco di virata, probabilmente era sfuggito di mano quel volante ed ecco la cabina telefonica. La panchina che si avvicina. Le ruote che sobbalzano caricandosi sull’aiuola.
Il ragazzo non smetteva di tirare calci ed io avevo tutto il tempo per guardare perché per qualche motivo che non conoscevo il traffico avanzava a rilento. Anzi, se non avessi avuto quella coppia da osservare, lo sguardo nel nulla della donna, il disappunto dell’uomo capellone, probabilmente sarei stato intento a bestemmiare per questa coda improvvisa.
Drogato, sicuramente, di qualche droga allucinogena, avevo concluso, doveva essere il ragazzo. Ripeteva gli stessi movimenti, sempre uguali, come se con quei calci alla fiancata della macchina avessero potuto riportare il tempo addietro, ad un secondo prima della decisione di fare l’inversione accelerando, salvando il muso della Golf, la giornata, la chiavata che probabilmente meditava di attuare, nella via della pineta.
Scemo, povero scemo, stavo godendo della sventura di questo essere fisicamente superiore. Povero scemo. Perché la fila di auto non si muove?
Guardo avanti, finalmente, sposto gli occhi dalla panchina, dalla Golf arenata e scorro verso il centro della strada. Ora si muove la fila. Una fila che non è una fila. Ci sono solo due auto davanti alla mia. Due auto ferme senza motivo per tutto questo tempo e che adesso con una scossa timida, stanno ricominciando a muoversi.
Scompare dal campo visivo la coppia della Golf. Vedo una scarpina.
L’asfalto ha la caratteristica di diventare del colore del cielo. L’asfalto usurato, quello non granulare almeno, si fa specchio spesso, dipende dalla luce dalla condizione del clima ma spesso si fa specchio. L’asfalto non è grigio come nei disegni dei bambini, assume il colore della luce che lo avvolge.
I disegni dei bambini.
C’è questa scarpina sull’asfalto e l’asfalto è in effetti del colore del cielo. potrebbe essere un cielo sdraiato sulla strada.
In questo cielo riflesso c’è una scarpina da bambino. L’auto avanza a passo d’uomo, è il mio piede che spinge piano l’acceleratore. Le mani sul volante. Una seconda scarpina entra nello spazio di visione.
A quel punto la testa si volta, la mia testa si volta, si muove da sola, come se dovesse esaudire un desiderio proprio mentre l’auto avanza, ruota per cercare ancora con la vista il ragazzo e la Golf.
La mia auto si è mossa a passo d’uomo, la panchina, la cabina telefonica e la Golf, sono ancora vicine e posso vedere il giovane muscoloso che ancora tira calci alla macchina. La ragazza invece ha le mani, entrambe adesso, affondate nei capelli biondi.
La testa volta ancora, Sto guidando, torna alla posizione frontale, c’è un passeggino a terra, steso su un fianco, ci sono parti che si sono staccate e sono sparse in giro: una ruota, un bracciolo, sull’asfalto chiaro.
Allora guardo a destra, oltre al finestrino di destra e la prima cosa che vedo sono i segni di una sgommata sul marciapiede, come di qualcuno che avesse frenato di botto o avesse messo in atto un’accelerazione repentina.
Ma, mi domando, sul marciapiede?
Il primo bambino appare sul lato destro.
La reazione della testa e del collo, è quella di guardare dall’altra parte. Di nuovo, quindi, a sinistra.
Non c’è scampo. Un altro bambino e una donna. Una seconda donna. Scarpe. La seconda donna nella mia testa, viste le forme, stesa, sulla strada, diventa la nonna.
il ragazzo ha smesso di tirare colpi alla carrozzeria. Le ginocchia della ragazza con i capelli biondi si sono flesse. Adesso è accucciata e il viso, appunto, è sparito tra i capelli, sotto le mani.
Non c’è polizia. non c’è ambulanza. C’è poco sangue ancora. Deve essere appena successo. Ci sono solo due auto davanti a me con altri automobilisti che, come me, stanno scoprendo la scena.
Evidentemente il ragazzo con la Golf ha investito una famiglia. nessuno dei quattro sulla strada si muove più. C’è una borsa adesso, lato sinistro. Un giocattolo, roba da spiaggia, ancora lato sinistro. Sto scorrendo con l’auto, perché non posso fermarmi nel mezzo allo scempio e i bambini sono a fianco del finestrino aperto ed è come essere in mare su una barca che avanza per inerzia e non può essere fermata e ci sono annegati tutto intorno e niente che puoi fare. Solo avanzare per fermarsi dopo, per non intralciare, provare a portare aiuto forse, anche se l’immagine dell’immobilità della morte pare così chiara adesso.
Nessuno vive qui. Solo gli automobilisti di passaggio.
Solo i due ragazzi alla panchina. Lui lo riconosco ora.
L’ho visto qualche settimana prima. c’era una rissa fuori da una discoteca, una decina di chilometri fuori città. C’era questa bestia gonfia di mescalina o altre droghe di queste che ti fanno le ossa di gomma dura, che tolgono ogni dolore e paura. Si stava battendo nel parcheggio della discoteca praticamente con tutti. Arrivavano ragazzi che provavano a stenderlo a dargli calci, pugni, uno con un tavolino. Il ragazzo con i capelli neri e il metabolismo tanto alterato stava in posizione da pugile, non perdeva la calma, mirava, colpiva, prendeva pugni e non andava mai giù. Qualcuno aveva strappato un divieto di sosta si avvicinava con quello.
Improvvisamente penso al padre dei bambini, al marito della donna. Probabilmente non sa ancora niente.
Arriva la prima ambulanza, la prima auto della polizia. Sono un curioso non servo a niente e non voglio essere qui quando il marito arriverà. Quelle urla, egoisticamente, non le voglio sentire. E poi non servo a niente. Nessuna delle persone che si sono fermate serve a niente. Ci sono addetti preposti, coraggiosi che affrontano scene come queste come si fa con un mestiere. Stanno scendendo dai mezzi, alla luce delle sirene.
Non si saprà mai come sono andate le cose. Voci di conoscenti parlarono di stato alterato del ragazzo, una corsa sul marciapiede. Altri raccontano che li abbia mirati, sgommato per prendere velocità. Poi, tentando di scappare, nell’inversione a U era finito contro una cabina telefonica. Per fortuna non c’era nessuno dentro, a telefonare.
I due bambini, la madre e la nonna erano morti.
Il ragazzo, anni dopo, era morto anche lui, in carcere, per le conseguenze di un AIDS contratta tanto tempo prima.
Perché questa è una cosa che è accaduta nel millenovecentottantotto.
Sono passati venticinque anni da quel giorno sul litorale. Non sono riuscito a dimenticare niente.
Tornando a casa, oggi, ho visto un gatto schiacciato.
Niente.
Nota: Dopo avere scritto questo testo ho cercato la notizia sul web. Ho trovato un articolo di Repubblica di allora. I morti erano 5. Anche il marito era là. Ma non lo vidi.