Tante cose sono cambiate

L’uomo alza gli occhi dalla tazzina di caffè e li sposta su di me.
Ha gli occhiali e le lenti di plastica. Le lenti si sono appannate per il calore del vapore, per questo adesso io so che sono di plastica. Il vetro non si appanna.
Ma il vetro, costa.
Ho dei biscotti. Lui ne prende uno e non smette di guardarmi.
Ho sempre fatto così, gli dico. Anche con i testimoni di Geova. Abitavo in una casa su un monte, in mezzo ad un bosco, c’era una strada ripidissima per arrivare da me e non si poteva percorrere in auto, o meglio, io lo facevo, ma tanti no, tanti avevano paura e preferivano venire a piedi. Così, in agosto, mi arrivavano a casa questi due testimoni di Geova, ogni domenica mattina, tutti sudati. Uno aveva sempre il fiatone. L’altro no, perché era un ciclista, aveva una fissa per la bicicletta e si faceva decine di chilometri tutti i fine settimana. Era allenato. Aveva una fissa pure per gli Stati Uniti e per i cowboy in particolare, portava una cintura con una fibbia a stella di sceriffo ed un giorno, mentre parlavamo di Dio e dei Dinosauri, gli ho fatto un disegno con un indiano, ed era così contento!
L’altro non era un ciclista, faceva ecografie all’ospedale. Almeno, quello che è venuto le prime volte, perché poi è cambiato. Il ciclista no. Non è mai cambiato.
L’uomo che mi ha suonato il campanello alle otto e trenta del mattino beve un sorso di caffè e mi guarda ancora.

Certo, gli dico, loro non venivano così presto. Che magari uno dorme.
Non stavo dormendo quando l’uomo ha suonato, ma adesso mi piace godermi questa temporanea superiorità: tu mi hai suonato il campanello alle otto e trenta del mattino ed io, invece di mandarti a quel paese, ti ho fatto entrare, ti ho fatto pure un caffè e ora ti stai mangiando il mio biscotto del Mulino Bianco, tanto che, come me, stai leggendo quella stupida frase sul pacchetto: Un uovo si innamora di una spiga di grano e le regala un cucchiaio di miele. Imbecilli.

E quindi? Gli chiedo. Cosa farete per me?
L’uomo mi dice che ha suonato così presto perché deve farsi tutta la strada. La mia casa, mi dice, è al 1033 e questo dà l’idea della lunghezza.
Gli rispondo che qui i numeri delle case sono messi in metri, partendo da non so dove, credo dal paese vicino, poi sono stati messi in metri.
Ne sono sicuro?
No. Non sono sicuro. Ho sempre pensato che fosse così. E la casa non è mia, gli dico, è in affitto. Ecco, aggiungo, su questa cosa degli affitti, che cosa avete in mente? Avete una proposta, un’idea? Pago novecento euro d’affitto, le sembra normale, chiedo.
Quando c’è stato l’adeguamento Istat, aggiungo, è salito a novecentoquattordici. La padrona mi ha chiamato al telefono, il giorno dopo, per assicurarsi che versassi anche i quattordici euro in più. Allora sono andato a casa sua ed ho visto che su un gran tavolo di vetro aveva tutti i contratti di tutti gli altri affittuari e stava passando la giornata così, chiamandoli uno per uno, per i quattordici euro, o meno. La mia padrona è milionaria. Infatti.

Ma fai tutto a piedi? Domando.
Mi risponde che sì, che potrebbe forse usare un motorino, come i postini, ma che poi come farebbe? Dovrebbe fermarsi e mettere su il cavalletto, sciogliere il casco, togliere il casco, chiudere il bloccasterzo, mettere un lucchetto. Tutte le volte, ad ogni casa, ad ogni campanello. Meglio a piedi.
Gli faccio presente che non sarebbe così. Quanti sono quelli che rispondono? E quelli che gli aprono? E quelli che gli aprono e lo fanno entrare?
E quelli che rispondono, gli aprono, lo fanno entrare, accomodare al tavolo di cucina e gli danno caffè e biscotti?
Rido.
È mio quest’uomo. È mio sulla base della gentilezza che gli porgo. Quando quelli come lui vanno a suonare i campanelli il novanta per cento delle volte vengono mandati al diavolo prima che possano esporre la loro proposta. Prima ancora della qualifica. Un restante nove per cento riceve il medesimo trattamento (pure peggiore) dopo essersi presentato.
Mi succedeva anche con i testimoni di Geova, gli dico. E pure al Comunista. Il Comunista, quello che veniva a vendermi “Lotta Comunista”, il giornale senza figure. E aveva la barba da comunista e la giacca da comunista e la sciarpa da comunista che sembrava essersi vestito da comunista ancor prima di diventare comunista.
Io gli facevo dei gran sorrisi e lui provava a convincermi a comprare “Lotta comunista” e io rispondevo che non sarei mai riuscito a leggermi un giornale scritto fitto fitto senza figure, che ero stato educato per metà dalla televisione, che il mio cervello non dispone di scaffali adatti a quel formato di letteratura.

Poi però lo compravo, perché il comunista era simpatico e mi trattava da pari (era comunista) insomma se ne fregava del fatto che io ero evidentemente più ricco e di destra. Una volta è entrato in casa, ha visto tutti gli strumenti musicali ed ha fatto una faccia strana. Ho immaginato che nel suo pensiero quegli strumenti avrebbero dovuto essere ridistribuiti ad una famiglia di proletari, uno per ognuno, il padre al basso, il figlio alla batteria e avanti così: “The proletars”.
Parlandoci, invece, ho scoperto che suonava la chitarra e che, tra le altre cose, a casa aveva pure una Gibson Les Paul.
Ha provato la mia Telecaster e ne ha tirato fuori roba che io manco la notte sognerei. La chitarra è rimasta eccitata per una settimana, dopo esser stata accarezzata dalle sue dita rosse.

Capisco che l’uomo che ho davanti adesso non ha interesse per il racconto del chitarrista comunista. Ha gli occhi stanchi e sono appena le nove.
Rifiuta un secondo caffè.
Insomma, mi dice, con un contributo volontario di 50 euro. Lo fermo: Se è volontario perché aggiungi “cinquanta euro”?
Mi guarda.
Si, dico, se è volontario potrei scegliere di dare meno, magari dieci euro. Oppure cento, se fossi in ottima giornata e le vostre proposte mi trovassero completamente d’accordo?
Il contributo è volontario, ma l’importo è fisso, mi risponde. Lei può scegliere se dare un contributo o no. Ma non può scegliere quanto dare. Non può scegliere la cifra e noi non vorremmo una donazione di cento euro, cerchiamo soltanto un contributo “volontario” di cinquanta.
Quindi se una mattina trovi uno che è pieno di soldi e vuole sostenervi non può farlo. Non mi sembra intelligente, dico (e inzuppo biscotto senza accompagnarlo con lo sguardo. Conosco benissimo tazza e biscotto).
Gli do del tu, lui mi da del lei. Io gioco, lui è serio. Io sono fresco, appena svegliato, lui già stanco. Lui è mosso da una vera passione che lo spinge a farsi chilometri a piedi ogni mattina. Io lavoro quando voglio come voglio e vivo di privilegio e vuoto.
Risponde: Sono cinquanta euro perché in questo modo ogni cittadino è uguale all’altro. In questo modo la registrazione e la gestione dei contributi sono più semplici e più trasparenti e diminuiscono i margini per eventuali irregolarità.
Comunque, mi dice, adesso devo ripartire. Lei è stato gentile ma devo fare ancora un migliaio di numeri.
Lo capisco. Chiedo scusa per essere stato fastidioso.
Però gli dico, mi viene da fare così perché sono abituato ai testimoni di Geova. Il Cowboy (lo chiamavo così, quello fissato con il ciclismo e gli Stati Uniti e che aveva come sogno, indovina un po’: attraversare in bicicletta proprio gli Stati Uniti) ogni volta si presentava a casa mia con un compagno diverso. Ogni volta il secondo era più colto, più ferrato, più tosto. Era come nei giochi elettronici, con i boss di fine livello. Ogni volta più difficile. Comunque, discutevo e vincevo, ma la settimana dopo il cowboy tornava con un altro socio, ancora più agguerrito.

Discutevo di nuovo e vincevo di nuovo, o almeno ero convinto di vincere perché comunque, nello sguardo del socio del cowboy quando imboccavano la strada per andarsene (in discesa, per fortuna) vedevo uno sguardo di scoramento e compassione. Immaginavo i suoi pensieri, lasciando la figura di questo incosciente sulla porta (io), tristemente convinto che la terra abbia milioni di anni e che i dinosauri siano realmente esistiti.
Un povero tonto (io), che sfuggiva, di sua volontà, la salvezza e la grazia di Dio affidandosi ad un fossile o qualche volatile ricerca scientifica, negando, di fatto, il verbo. La linea della bibbia numero tot, versetto ics.
Ecco, dico all’uomo che finito il caffè sta riordinando le sue carte, ero abituato ad avere a che fare con i testimoni di Geova.
Mi guarda fisso, attraverso gli occhiali che son tornati chiari: Noi non siamo testimoni di Geova. Mi dice. Siamo un partito politico, su questo opuscolo che le lascio c’è il nostro programma, le nostre proposte, il modo in cui intendiamo attuarle ed i nomi dei rappresentanti che si impegnano a farlo.
Wow. Rispondo.
Penso a quanto sono cambiati i tempi. Chi lo avrebbe detto?
Lo leggerò.
E io ripasserò. Mi dice.
Ne sono sicuro. Concludo.
Poi l’uomo con gli occhiali e la cartella sotto il braccio con attaccato in scotch lo stemma in bianco e nero del partito politico imbocca il vialetto di uscita.
Tengo i cani, gli dico. Altrimenti la sporcano.
E l’uomo attende che abbia fermi in mano i collari di Lello e Buba.
Ecco, dico. Prego.
L’uomo mette un piede sulla ghiaia, va verso il cancello. Preme il pulsante di apertura.
Si ferma.
Quanto ha detto che paga di affitto?
Novecento euro, rispondo.
Il cane Lello tira forte, l’uomo indossa un completo scuro, senza marca ma pulito e il cane Lello evidentemente è convinto che due zampate di cane ci starebbero perfettamente in tono.
Abbiamo delle idee sugli affitti, la loro gestione e la fiscalizzazione, mi dice l’uomo.
Fiscalizzazione? Chiedo.
Sì. Mi dice.
Io non capisco niente di queste cose, quindi lo dico: Non capisco niente di queste cose.
Dovrebbe, mi risponde. L’economia è tutto.
Comunque se legge il nostro opuscolo ci sono anche le date e gli indirizzi delle riunioni.
Va bene, dico. Magari ci faccio un salto.
L’uomo preme il pulsante del cancello. La serratura scatta provocando un fremito nella muscolatura del cane Lello che teme di veder svanire l’ultima occasione. Il cancello si apre.

Oddio mi scusi, mi è sfuggito. Dico all’uomo che osserva le due zampate sul vestito nero.
Mi scusi, davvero.
L’uomo cerca di mandare via l’impronta dei polpastrelli di cane.
Mi lancia un ultimo sguardo.
Non sono i metri. Mi fa.
Come? Chiedo.
La strada. Ha una numerazione assolutamente normale. 1033, 1035, 1037. Non sono i metri.
Ah. Dico.
L’uomo richiude il cancello. Sento i suoi passi che si allontanano. Il cane Lello si appoggia alle mie gambe per prendere la sua ricompensa: pacche e carezze e “bravo Lello bravo Lello”.
È così. Non è questione di essere cattivi, è un riflesso automatico, una roba che viene da anni di rabbia. Piccole vendette trasversali ed infantili, delle quali, però, non riesco ancora a fare a meno.
Il cane torna a giocare. Ha una pallina di gomma. corre nell’erba alta. Prende un raggio di sole sulla testa.
Apro la porta. Torno in casa. Mi siedo al tavolo di cucina. C’è un altro po’ di caffè. Un biscotto. Metto gli occhiali. Prendo l’opuscolo, lo apro, lo leggo. Non è scritto male. Da quando i partiti sono stati costretti a trovarsi i soldi così, come gli altri, porta a porta, tante cose sono cambiate, pure la grafica, gli slogan. Evidentemente non hanno più tanti soldi da buttare in trovate intelligenti e stilose. Me ne compiaccio mentre inzuppo.
Leggo.
Alcune cose mi convincono.
Altre no.
C’è una riunione il ventisette.

Mi sveglio.

 

Gipi Pacinotti

Disegnatore e regista, collabora con la Repubblica e Internazionale. Con il suo graphic novel Appunti per una storia di guerra ha vinto il premio Goscinny al festival del fumetto di Angoulême. Il suo primo film si chiama L'Ultimo terrestre.