L’India e il nucleare
Qualche anno fa lessi un bellissimo libro che ricostruiva la storia dell’invenzione della bomba atomica, con un titolo molto descrittivo: L’invenzione della bomba atomica. Allora non avevo il riflesso quasi automatico di controllare qualsiasi cosa su Wikipedia – anche perché Wikipedia ancora non c’era, come ho verificato or ora consultando la voce “Wikipedia” su Wikipedia – ma ora sì, e posso ricostruire che il suo autore, Richard Rhodes, con quel libro ci ha vinto un premio Pulitzer.
Con la lettura del libro di Rhodes si formò nella mia testa una di quelle opinioni che poi mi hanno accompagnato per anni, una delle tante semplificazioni e generalizzazioni di cui bisogna fare uso tutti i giorni. Secondo quell’opinione, l’energia nucleare era una delle più affascinanti conquiste dell’uomo e, grazie alla sua potenzialità straordinaria, rappresentava in definitiva la reale possibilità, in un futuro forse prossimo, di ottenere energia in abbondanza e a costi contenuti.
Ne seguiva anche una previsione: la tecnologia, con i suoi progressi inarrestabili, avrebbe risolto i dubbi di scettici e ambientalisti e dimostrato con i fatti che il nucleare era inevitabile, almeno nel lungo periodo. In qualche decennio si sarebbe trovata la risposta al problema delle scorie e le centrali sarebbero state sicure, escludendo ragionevolmente il pericolo di un incidente disastroso. Il motivo di questo ottimismo stava certamente anche nell’affascinante racconto di Rhodes, che a dispetto del titolo “bellico” tratta molto a lungo (e molto bene) l’esaltante periodo delle scoperte della fisica e della fisica nucleare nei primi decenni del Novecento.
Tra i paesi che hanno investito di più nell’energia nucleare c’è sicuramente l’India. Il fatto che l’India operi da circa sessant’anni molti reattori nucleari – attualmente sono venti, in sei centrali diverse – è forse un caso unico al mondo per il contesto economico e il messaggio politico che lo accompagna. La classe dirigente di un paese con un PIL pro capite tuttora intorno al 130esimo posto della graduatoria mondiale ha scelto, decenni fa, di investire sulla fonte di energia che richiede le tecnologie più avanzate per funzionare, e lo ha fatto, come vedremo tra poco, nella convinzione che il nucleare fosse uno strumento fondamentale per uscire dalla povertà e dall’arretratezza. Nella graduatoria dei paesi del mondo che operano centrali, l’India è al quinto posto dopo Stati Uniti, Francia, Russia e Corea del Sud.
Nelle ultime settimane mi sono imbattuto in un libro, The Power of Promise. Examining Nuclear Energy in India, che si occupa proprio del caso indiano e che mi ha fatto riconsiderare il mio pregiudizio sul nucleare. L’autore è M. V. Ramana, un fisico di origini indiane ma che lavora a Princeton. Ramana fa una breve storia dell’energia nucleare in India, analizza come viene gestita oggi, espone quali sono gli obbiettivi palesi e segreti che si dà il programma, e conclude che si tratta di un investimento “alto nei costi, povero nei risultati e basso nel livello di controllo democratico”.
Come spiega Ramana, la figura centrale nella decisione di puntare molto sul nucleare, in India, è stata un uomo nel resto del mondo largamente sconosciuto, Homi Bhabha, il “padre del programma nucleare indiano” (ho scoperto che c’è anche un omonimo teorico del neocolonialismo). Negli anni intorno all’indipendenza (1947) era così tenuto in considerazione da essere chiamato da molti “l’uomo più intelligente dell’India”.
Bhabha era membro di un’importante famiglia di industriali indiani, educato a Cambridge e amico molto stretto del primo ministro indiano Nehru, il primo dell’India indipendente. Fu fondamentale nella diffusione degli studi sull’energia nucleare in India – era lui stesso un fisico di buon livello – e pubblicizzò con ogni mezzo la promessa che l’energia nucleare avrebbe liberato il paese dalla povertà e avrebbe aperto le porte del progresso. I suoi progetti grandiosi erano in totale consonanza con le idee di Nehru, secondo cui «solo la scienza può risolvere il problema della fame e della povertà, delle cure sanitarie e dell’analfabetismo, della superstizione e dei costumi e delle tradizioni morenti […] di un ricco paese abitato da un popolo che muore di fame» e che chiamava le dighe «i Templi dell’India».
Sostenuto da Nehru, che aveva nel progresso scientifico una fiducia pari a quella dei benefici di un’economia pianificata (una delle cose che ho scoperto da questo libro è che in India ci sono ancora piani quinquennali di ascendenza socialista), Bhabha ideò un programma in tre parti per lo sviluppo del nucleare nel paese. L’obbiettivo finale di questo progetto fondamentale nella storia del nucleare indiano era quello di sfruttare il torio, di cui l’India ha circa un terzo delle riserve mondiali conosciute, e non l’uranio, che invece in India è relativamente poco, come carburante per decine e decine di reattori nucleari.
Dopo circa sessant’anni, il programma – che ha anche una voce su Wikipedia in inglese, scritta evidentemente da un ardente sostenitore – è più o meno alla prima fase, ma si sta investendo molto per cominciare la seconda: quella dei Fast Breeder Reactors (FBR).
I FBR, o reattori autofertilizzanti veloci, producono più carburante nucleare di quanto ne consumino, perché parte della radiazione emessa nel reattore è usata per ottenere altro combustibile nucleare, ad esempio trasformando un isotopo dell’uranio in un isotopo del plutonio particolarmente adatto a quello scopo (il procedimento è piuttosto complicato nei dettagli; a favore del libro di Ramana c’è anche una chiara appendice sui vari tipi di reattore). Il concetto appare in effetti molto affascinante, ma nella pratica i FBR che sono stati costruiti negli ultimi decenni hanno enormi problemi tecnici. Chi ha provato a investirci finora non è andato molto lontano: un esempio pratico e piuttosto famoso è il Superphénix francese, costruito nel 1986 ma chiuso dieci anni dopo per diversi motivi (tra cui la forte opposizione di movimenti ambientalisti).
La seconda fase del progetto di Bhabha consisteva esattamente nel costruire un sacco di reattori di quel tipo, e l’India continua a investire su un programma certamente visionario negli anni Cinquanta, ma che oggi sembra molto meno fattibile. I paesi che pensavano di investire molto sui FBR hanno da tempo rivisto le proprie priorità.
La terza fase, quella del torio, sembra ancora molto distante. Per coincidenza, un articolo sul torio come alternativa “più economica e più pulita” dell’uranio, che nomina l’India solo di sfuggita, è stato pubblicato qualche giorno fa dal Telegraph: quindi è probabile che se ne riparli nel prossimo futuro anche fuori dall’India.
Dopo la morte di Bhabha, nel 1966, le sue idee sono state sostenute senza ripensamenti né cambi di programma sostanziali dai massimi esponenti della classe dirigente indiana (compreso l’attuale primo ministro Singh) con pochissime eccezioni e con rinnovate promesse per il futuro.
L’ente che si fa carico di portarle avanti è il Department of Atomic Energy (DAE) che, spiega Ramana, è una specie di superministero fondato nel 1954 che dipende direttamente dal primo ministro. Nel libro di Ramana, l’operato del DAE è messo in discussione in modo estremamente analitico e con conclusioni tutt’altro che positive.
Negli anni, mostra Ramana, il DAE si è comportato a grandi linee così: ha promesso in ogni occasione pubblica un aumento spettacolare dell’energia prodotta nel prossimo futuro, ha ricevuto enormi finanziamenti, e poi ha puntualmente mancato di raggiungere gli obbiettivi, di tanto in tanto spostandoli in là nel tempo. Ramana dice che il problema principale sta nell'”implausibilità tecnica” di quei piani, che hanno subito ritardi e enormi aumenti di costi, e nell’incapacità del DAE di imparare dagli errori passati.
L’intera strategia delle tre fasi si poggia sull’assunto – rivelatosi poi sbagliato – che l’uranio nel mondo sarebbe presto diventato troppo poco per sostenere la crescita dell’energia nucleare civile, che negli anni Cinquanta si immaginava rapidissima. Il DAE nasconde poi molti dati sui costi del programma con l’argomentazione – spesso molto pretestuosa – che si tratta di informazioni sensibili ed è particolarmente impermeabile al controllo esterno, mentre il saldo sostegno nella classe dirigente indiana impedisce che le poche voci critiche sulle sue spese e le sue promesse non mantenute trovino spazio.
Quanto alle promesse, il libro è costituito per una parte importante dalla puntigliosa elencazione dei ritardi enormi, delle cancellazioni e dei rinvii nella costruzione di ogni singola centrale, spesso costruite grazie all’importazione di tecnologia dall’estero. Quelle che ci sono, inoltre, funzionano spesso a ritmo ridotto o vengono chiuse per lunghi periodi a causa di guasti e problemi tecnici. Parte dei costi esorbitanti sono nascosti grazie a quella che Ramana chiama “contabilità creativa” e parte sono pagati da generosi sussidi concessi dal governo.
C’è poi il tema del controllo democratico, cioè quello che dovrebbe distinguere quello che succede in India da quello che succede in un regime militare o autoritario. Anche in questo campo, l’operato del DAE e degli altri enti statali coinvolti si rivela decisamente scarso e gli organi di controllo non sembrano funzionare granché. Un esempio tra tutti è la National Environment Appellate Authority, un organismo di controllo ambientale, che nei primi undici anni di attività ha rifiutato tutti i ricorsi presentati.
Ma il fatto che l’India sia un paese democratico ha permesso quel minimo di dialogo e di circolazione delle informazioni che ha reso possibile il libro di Ramana: chissà quando uscirà un libro simile sul programma nucleare (civile) in Cina, dove oggi ci sono 17 reattori ma ne sono in costruzione altri 32, più o meno come in tutti gli altri paesi del mondo messi insieme.
Tornando alla storia, una data fondamentale nella storia del programma è il 18 maggio 1974, quando non distante dal confine pakistano l’India condusse il suo primo esperimento nucleare. Dal punto di vista diplomatico fu un disastro: causò un lungo embargo alle esportazioni di materiale e tecnologia nucleare nel paese, nonostante l’India, con orwelliana inventiva verbale, abbia sempre chiamato ufficialmente quel test e i successivi (nel 1998) “esplosioni nucleari pacifiche”. Ma quella legata alle armi nucleari è una parte fondamentale del potere che a tutt’oggi detiene il DAE, spiega Ramana:
L’abilità di produrre armi nucleari permette al DAE di offrire qualcosa che nessun’altra tecnologia energetica può dare e il potere politico risultante è stato usato dal DAE per aggirare la democrazia. In molte occasioni, il DAE si è rifugiato nell’argomento che, a causa di considerazioni di sicurezza nazionale, diversi organi governativi non gli possono chiedere conto di nulla.
Fino ad ora, la questione sembra essere quella dello scarso controllo pubblico e di una pericolosa attrazione per gli armamenti nucleari. Ma quando si tratta di problemi ambientali o di sicurezza si scopre che le cose non vanno molto meglio.
A parole, il DAE ripete sempre che la sicurezza è la sua preoccupazione fondamentale e che nelle sei centrali nucleari indiane non c’è alcun rischio di incidente. Ramana documenta invece che “in praticamente tutti i reattori nucleari e nelle altre strutture associate al ciclo del combustibile nucleare gestito dal DAE ci sono stati incidenti di diversa gravità” e stima che tra il 1998 e il 2010 ci siano stati in media 34 incidenti l’anno, concludendo impietosamente che la causa principale è “l’inadeguata priorità della sicurezza a livello istituzionale”.
Nel primo reattore FBR in costruzione in India, a Kalpakkam – i lavori sono cominciati nel 2004 e la data di entrata in funzione è già stata rimandata molte volte – sono state fatte molte modifiche ai disegni iniziali “motivate molto probabilmente dal taglio dei costi”. I risparmi sono stati fatti, dice Ramana, in un tipo di reattore che pone particolari problemi di sicurezza: il principale viene dal fatto che l’impianto di raffreddamento è a sodio liquido, un metallo che ha il difetto di prendere fuoco quando entra a contatto con l’ossigeno dell’aria.
Ramana descrive esercitazioni di sicurezza portate avanti senza nessuna serietà -in un caso un allarme viene dato nel tardo pomeriggio e il responsabile si presenta al centro di controllo la mattina successiva – e racconta alcuni incidenti della storia indiana. Nel più grave, avvenuto alla centrale di Narora il 31 marzo 1993, una turbina si ruppe per usura e causò un incendio, che portò a sua volta a un blackout generale. I tecnici fecero in tempo a spegnere il reattore, ma per evitare completamente la possibilità di un’esplosione fu necessario che alcuni operai scalassero l’edificio del reattore e aprissero manualmente alcune valvole per il rilascio di boro liquido nel nocciolo.
Ramana documenta a lungo che, lungi dall’essere stata la proverbiale “fatalità”, le cause dell’incidente potevano essere rintracciate in una pluriennale mancanza di attenzione alla manutenzione e in difetti nella progettazione degli impianti.
Poco più di un anno dopo l’incidente di Narora, nel giugno 1994, l’edificio delle turbine della centrale nucleare di Kakrapar si allagò nella notte a causa delle pesanti piogge: “gli operai del turno mattutino dovettero nuotare nell’acqua alta fino al petto e, a quanto si dice, la sala di controllo rimase inaccessibile per un po’ di tempo”. La situazione venne risolta in un modo inatteso: “Alcuni abitanti della zona, preoccupati per la sicurezza delle loro case, fecero un’apertura nel lago [artificiale alle spalle della centrale], che permise all’acqua di defluire”. Vennero evitate conseguenze molto più gravi solo perché la centrale era spenta per un’ispezione alle turbine, decisa dopo Narora. Il presidente dell’autorità di controllo sul nucleare in India scoprì dell’accaduto solo dai giornali.
Il mese prima, nel maggio del 1994, la cupola di contenimento della centrale di Kaiga crollò durante la costruzione del reattore a causa di “gravi difetti nella progettazione”, un fatto descritto da Ramana come “senza precedenti negli annali della storia dell’energia nucleare”.
Il libro racconta in tono molto asciutto parecchi altri incidenti, e le cose non vanno molto meglio quando il libro descrive l’impatto ambientale di impianti industriali o minerari connessi all’industria nucleare, come miniere di uranio o impianti di trattamento delle scorie. Se qualcuno volesse approfondire, il documentario Buddha Weeps in Jadugoda (si trova facilmente online) racconta una delle storie più drammatiche: nel documentario si vedono contenitori mal sigillati di rifiuti radioattivi che vengono buttati nei corsi d’acqua che alimentano risaie intorno a una miniera di uranio, con effetti devastanti per gli abitanti dei villaggi vicini. Nel passaggio più pessimista del libro, che mantiene per lo più un tono di distaccata documentazione, Ramana scrive che in caso di incidente catastrofico “le analisi ex post arriveranno probabilmente alla conclusione che, come a Bhopal e a Chernobyl, si trattava di un incidente annunciato”.
Poche settimane fa è stato pubblicato il World Nuclear Industry Status Report 2013, il frutto di un grande lavoro di raccolta di dati e analisi coordinato da Mycle Schneider, un attivista e esperto nel campo del nucleare. Il rapporto dà un giudizio molto negativo delle prospettive dell’energia nucleare fin dalle prime righe, ma è difficile non notare che si tratta di una presa di posizione molto documentata. Una delle idee fondamentali è che, fino a Fukushima, si andava diffondendo il concetto che nel mondo fosse in atto una nuclear renaissance, una sorta di “ritorno al nucleare”. In realtà, mostra il rapporto, anche prima di Fukushima il numero delle centrali e l’energia prodotta erano rimasti più o meno stabili, con frequenti cancellazioni e rinvii a causa degli altissimi costi di costruzione e di gestione che hanno reso molte centrali antieconomiche, specie negli Stati Uniti.
Quello che mostra l’ottimo rapporto curato da Schneider è che ci sono molti fattori economici a minare il futuro dell’industria nucleare, ma dal libro di Ramana sembra venire una lezione diversa. Alcuni decenni di grandi scoperte scientifiche hanno reso possibile una tecnologia straordinariamente potente e per molti versi unica (come il fatto che le scorie, per cui non è ancora stata trovata una sistemazione definitiva, hanno bisogno di una vigilanza continua da parte delle future generazioni). Ma a chi la deve gestire si richiedono sforzi altrettanto straordinari: il totale rispetto delle regole, la capacità di sottoporsi continuamente a meccanismi di revisione e di controllo, la subordinazione di ogni interesse economico, politico o di prestigio alla sicurezza degli impianti e dell’ambiente.
L’India non sembra esserne in grado e si può avere la tentazione di concludere che è un caso eccezionale: un paese enorme e mediamente molto povero, con gravi problemi di inefficienza nell’apparato statale e nel funzionamento democratico. Ma negli ultimi mesi si è visto a Fukushima (e in altri casi che hanno fatto meno rumore, come gli scandali in Corea del Sud) che i casi di opacità, conflitti di interessi mal risolti e scarso funzionamento dei meccanismi di controllo non sono delle prerogative dei paesi come l’India, ma anche dei più ricchi e tecnologicamente avanzati. Per chi preferisse un approccio più artistico allo stesso tema, un romanzo uscito poco tempo fa (Elisabeth Filhol, La centrale, pubblicato in Italia da Fazi) mostra la stessa cosa, descrivendo un (verosimile) incidente in una centrale francese e la vita degli operai. In conclusione, l’enorme complessità dell’energia nucleare non è stata impossibile da scoprire, e la sua scoperta è stata un’impresa esaltante, ma forse è impossibile da gestire.