Il rap di Ferrara spiegato ai bianchi
Non stupisce che uno sgamato di comunicazione politica come Giuliano Ferrara sia diventato rapper per un giorno: con cuffie e occhiali da sole neri il direttore del Foglio ha messo in rima, sotto uno sgangherato beat hip hop, un editoriale che invitava Berlusconi a non mollare Monti. Ha registrato il tutto in bassa qualità con la webcam del computer e l’ha immediatamente messo in rete sul sito del suo giornale. A un primo ascolto si potrebbe pensare alla boutade estemporanea o all’impazzimento dell’estroso giornalista. Ma così non è, per una serie di ragioni.
In tempi di euforia twittarola, mentre il linguaggio politico sdoganava l’hardcore di Beppe Grillo tirandolo fuori dal guscio della comicità e mentre la politica in televisione, tra satira e talk show, sembrava impantanata in modelli anni Novanta, il giornalismo d’opinione – quello dei corsivisti da prima pagina cartacea, per intenderci – sembrava patire l’impasse del pensiero veicolato alla parola scritta. Gli unici capaci di resistere al nuovo che avanza (e barbaro non è…) sembravano i “tweet lunghi” o “editoriali brevi” come L’amaca di Serra e Il Buongiorno di Gramellini pronti a essere scansionati e diffusi su Facebook tra i vari I like, oppure le oratorie su inchiostro di Travaglio, che grazie al mix di humor paninaro e invettiva sono diventate uno standard a cui mirare e magari copiare. E quando gli altri editorialisti sopravvissuti si domandano che fare, inseguendo chi la tv chi la rete, Mc Giuliano Ferrara gioca divertito a fare Eminem scavalcando – chissà quanto consapevolmente – a destra e a sinistra gli avversari.
Il rap oggi in Italia è sicuramente il genere musicale più di successo: lo confermano le vendite e i sold out ai concerti dei vari Club Dogo, Fabri Fibra e Marracash. Nonostante questo è una musica ancora osteggiata da radio, stampa e televisione. Vuoi per il target di ragazzini che rappresenta vuoi per il contenuto a volte troppo esplicito e volgare dei testi, il canale di diffusione dell’hip hop è la rete che determina vita, celebrità e morte dei vari rapper. Se le marche di bibite e abbigliamento considerano – a suon di sponsorizzazioni – il genere una gallina dalla uova d’ora, la comunicazione “adulta” lo snobba credendolo una moda passeggera per teenager. Ma questa situazione è un’anomalia tutta italiana.
In America, patria dell’hip hop nonché modello culturale di Ferrara, il rap degli inizi era una forma di comunicazione da cui la comunità wasp sembrava essere estromessa, essendo considerata “musica nera per i neri”, pomposa e autoreferenziale, inneggiante a delinquenza e misoginia. Ma questa divisione durò poco, come raccontano David Foster Wallace e Mark Costello nel saggio Il rap spiegato ai bianchi. Alla fine nella comunità bianca, borghese e colta, prevalse la paura fascinosa (e il fascino pauroso) per quello che il rap raccontava, riassumibile nell’espressione “la strada”. Narrare con autoreferenzialità quello che succede in strada significava per i rapper creare una sorta di patto di fiducia con il pubblico che riconosceva per vere e credibili le storie raccontate nelle canzoni, sia che si trattasse di papponi nei ghetti – come facevano Notorious B.I.G. e Tupac Shakur – sia che si trattasse di imbracciare metaforicamente un Uzi e fare la rivoluzione – come rappavano i Public Enemy.
Parlare e farsi capire dal popolo, dalla gente comune, è un mito ossessivo che ha portato Ferrara a vedere in Berlusconi un rapper inconsapevole: Mc Silvio con il suo “Fight The Communist” ha unito il più oltranzista gangsta rap di prostitute, festini, denaro e potere, al political rap; era pomposo e autoreferenziale; ma soprattutto era capace di creare quella paura fascinosa che lo fece avvicinare anche a persone molte diverse da lui. Ora che Silvio Berlusconi è in affanno e la sua stagione sembra essere al tramonto, è necessario affilare nuove forme di comunicazione, imprevedibili e spiazzanti. Quelle che ci sono paiono spuntate, non in grado di parlare a chiunque sia. Il rap di Ferrara non sarà certo l’arma della svolta – qualitativamente troppo scarso al limite della burla – ma rappresenta chiaramente (e amplifica con il beat forte del rap!) la domanda che vale la pena porsi oggi: come dobbiamo parlare quando parliamo di politica?