La Lega non fa più paura
Stamattina mi chiedevo se avesse ancora senso scrivere un reportage su una manifestazione della Lega, nello specifico quella che stavo raggiungendo in Piazza Castello ore dieci. Il lavoro mi aveva già portato negli anni a Pontida, a Venezia e pure a Pecorara, alla festa della zucca, sempre al seguito di Bossi e compagnia. Ho sviluppato quindi una certa familiarità con copricapo vichinghi, “Secessione! Secessione!”, ampolle padane, canne da pesca al posto delle aste da bandiera, trattori, dialetti del nord e fazzoletti verdi. Più o meno lo stesso scenario che si riproponeva oggi, con qualche minima variante: più applausi per Maroni, un Borghezio isolato come un black bloc, qualche fischio a Bossi e i manifestanti che hanno sostituto per necessità la salamella col Big Mac del fast food di piazza del Duomo. Era pur sempre lo stesso film di folklore padanista con gli stessi attori, solo più vecchi (di giovani neanche l’ombra) e più incazzati col mondo: un’incazzatura triste, con meno dito medio e più bestemmie, borbottate tra le sciarpe con lo sguardo rivolto a terra.
Per dare un senso al mio essere lì ho iniziato a fare delle fotine col cellulare e a twittarle con tanto di didascalia ironica, così almeno da far sorridere i miei amici. Ho fotografato i trattori in piazza Duomo come nel film “Ragazzo di Campagna” con Pozzetto; Castelli col loden (la dida era “loden all’ignoranza”), Maroni superstar, Calderoli versione Fantozzi sulle piste da sci, Borghezio con l’ascia da guerra in una mano e il sacchetto del Pam nell’altra; e ancora foto ai cartelloni più originali (pochi) e ai manifestanti più buffi (e ce ne erano eccome). Poi sono arrivato in piazza Duomo, undici passate, un bellissimo sole e una temperatura che neanche primavera. Mi siedo sui gradini, pronto ad ascoltare i comizi e inizio a smanettare con le applicazioni del mio telefonino. Giochicchio con Hipstamatic, quella app che ti permette di fare le foto vintage, riproducendo in digitale l’effetto delle vecchie pellicole e delle ottiche di una volta. Scatto foto come un pazzo, a tutte le facce e alle centinaia di bandiere. Poi mi risiedo, stesso gradino, e riguardo le foto, queste nuove eppure vecchie e “invecchiate”, retrò.
E mentre Bossi parla dal palco realizzo una cosa, piccola ma fondamentale: quella di oggi è una manifestazione nostalgica, “vintage”. Come un raduno di Woodstock fatto vent’anni dopo, con gli stessi partecipanti che sognavano di cambiare il mondo e che oggi sperano, replicando il rito, che qualcosa cambi (ma in fondo non ci credono più davvero…). Come hippie delusi e un po’ suonati anche i leghisti risuonano l’album di Pontida, cantano in coro la hit “Secessione! Secessione!” e sventolano bandiere ingiallite. In molti urlano e si incazzano ma la sensazione non è quella di una nuova rabbia, ma semplicemente dell’effetto prolungato dell’acido di Pontida che si sono calati anni fa. La Lega è un rito stanco, che sopravvive grazie alla consapevolezza di essere stati qualcosa di grande e alla paura già realizzata che la loro esperienza leghista diventi sempre più marginale. Come lo spirito fricchettone anche quello secessionista si sta trasformando in un revival permanente, in una “ossessione per il passato” che il critico musicale Simon Reynolds ha descritto bene in Retromania: “Non solo non è mai esistita una società così ossessionata dagli artefatti culturali del nostro recente passato, ma non è mai esistita prima d’oggi una società in grado di accedere al nostro recente passato in modo così facile e diffuso”.
Le mie foto vintage sono sul telefonino, il passato è presente. E il futuro? Torno a casa e ripesco il libro di Reynolds: “La presenza del passato nelle nostre vite è incrementata a livello incommensurabile”. E si tratta di una presenza insidiosa: “Il passato non può fare altro che superare il presente, non solo in quantità ma anche in qualità”. Sarà, ma questo passato senza futuro della Lega oggi per fortuna non spaventa più. Neanche in foto.