La fatica di essere buoni

Un mio amico, che mi prende sempre in giro dicendomi “sei buono” perché sa quanto lo odio, ha letto una bozza di questo post e mi ha detto che “la fatica di essere buoni” è il sunto di ciò che ho scritto.

Io la penso un po’ diversamente, sull’essere buoni, e lo devo a una cosa molto semplice ma che ho capito solo dopo aver già vissuto un bel pezzo di vita e cioè che al di fuori dei film americani – 1) ciò che sei bravo a fare; 2) cioè che ti piace fare; e 3) ciò che è giusto fare – sono cose diverse. Solo alcuni di noi hanno la fortuna, e il privilegio, che almeno due di queste cose coincidano. Gli altri devono faticare d’insoddisfazione, fare un po’ e un po’, barcamenarsi fra l’uno e l’altro, tirare a indovinare. E alla fine fare una scelta. Io ho capito – ci ho messo molto, ma l’ho capito; lentamente e grazie all’influenza di alcune persone importanti della mia vita, una in particolare – che l’unica cosa che davvero vale la pena è la terza: fare ciò che si ritiene giusto, provare ad aiutare chi è vulnerabile.

Così, senza grosso spirito messianico, 4 anni fa ho deciso di andare a lavorare nei campi profughi in Grecia, quelli che ricevono le persone che scappano dalla guerra in Siria. Dopo un po’ di tempo, per essere presi più sul serio dalle altre organizzazioni e dalle autorità greche abbiamo aperto una piccola ONG, Second Tree.

Quello che è successo è che penso di correre seriamente il rischio di fare questa fine. Lo penso da un po’, ma gradualmente questo rischio si è fatto più concreto, fino al punto di dire “non ce la faccio più”. Il problema è che tutte le altre persone che fanno o hanno fatto Second Tree sono nella stessa condizione. Per questo c’è il rischio vero, presente e quasi immediato che la cosa più significativa e utile che abbia mai fatto in vita mia finisca.

Insomma, questo è il post in cui racconto la storia di una persona che lavora da quasi quattro anni nei campi profughi e si è quasi bruciato cervello, corpo e cuore.

Questo post mi serve per mettere in ordine le idee e raccontare qualcosa di lontano dall’esperienza di molti, ma è anche una richiesta d’aiuto.

Katsikas, dove tutto è cominciato

DARSI DA FARE

La tasklist che James mi ha scritto ammonta a 86 ore di lavoro a settimana, fra parlare con ministeri e altre organizzazioni, raccogliere fondi o intervistare potenziali volontarî, andare al campo o scrivere un progetto. La stima è una stima e sarà imprecisa, ma non di tanto, e le altre persone che sono qui in Grecia da tanto tempo sono in situazioni simili.

Il problema è che abbiamo creato una cosa che non esiste altrove, e ci sono buone ragioni per le quali non esiste.

Alcune delle cose che Second Tree fa nel rapportarsi alle persone che vivono nei campi profughi sono cose che tutti dicono di fare, ma pochi altri fanno; altre sono cose che pochi altri dicono di fare, perché sono semplicemente diverse.

Il perché le prime richiedano un surplus di impegno, sacrificio e dedizione è molto facile da capire: si tratta di essere presenti, affidabili, disponibili; fare sempre quello che si promette di fare, anche in caso di emergenze. Essere i primi punti di contatto e i primi ascoltatori e solutori di problemi, anche se questi accadono alle 4 di notte, o di domenica. Ma il punto non è lavorare il weekend o dopo le 5, per quello si possono fare i turni, il punto è fare le cose davvero per bene.

Il perché le seconde, quelle che nessuno dice di fare o fa, richiedano lo stesso surplus è più difficile da dire. Si tratta di considerare le persone che vivono nei campi profughi come esseri umani con i quali si può essere in disaccordo, con cui si può interagire allo stesso livello, con cui si può scherzare e dialogare. Non bambinoni da accudire, ma persone con opinioni, talenti, ottusità, rabbie, empatie, come tutti gli altri. Non concepire l’approcciarsi a un profugo come un’operazione di disinnesco o un esercizio di protezione. È molto difficile, e per questo richiede impegno, sacrificio e dedizione quotidiani, e infatti non lo fa nessuno.

I risultati si vedono: quando nei campi profughi ci sono gli scioperi dei residenti contro le ONG, Second Tree è esentata: a noi ci fanno entrare. E non perché siamo buonaccioni, o stiamo sempre dalla parte dei profughi, siamo anzi i più severi di tutti quando qualcuno fa una cazzata. Ma per il rispetto nei confronti di ciò che facciamo, del come lo facciamo, e del perché lo facciamo. Ci sono persone che lavorano nel settore umanitario da anni e hanno conosciuto decine di realtà diverse, e che quando sono venute a vedere quello che facciamo hanno detto «io una cosa così non l’ho mai vista».

Il messaggio che ci ha scritto Lucas dopo il meeting in cui abbiamo parlato della possibile chiusura di Second Tree

PERSONE

L’unico modo per riuscire a fare queste cose è trovare delle persone intelligenti, capaci e soprattutto disposte a stare a lungo e imparare. Ovviamente più persone ci sono, più ci si divide il lavoro. Perché le cose più importanti, quelle che bisogna proprio fare, non possono essere affidate ai 15-20 volontarî che sono con noi per tre mesi, perché quei tre mesi ci vogliono tutti solo per imparare a farle.

Quello che dico sempre è che Second Tree è un’opportunità molto grande per un numero molto limitato di persone. Non sono molte le persone che abbiano voglia di darsi da fare per aiutare gli altri senza un vero ritorno economico, ma solo per la soddisfazione che dà. Però per queste poche persone l’opportunità di accedere alla gestione di un’organizzazione relativamente affermata che con successo fa del bene non capita tutti i giorni.

Il problema è che queste persone non le abbiamo trovate. O non ne abbiamo trovate abbastanza per assicurare un buon turnover che includa anche noi. Se vogliamo scongiurare il rischio che anche le nuove leve si consumino come noi, dobbiamo averne di più, così da avere la possibilità di spartirci maggiormente il lavoro.

I nostri bimbi

SOLDI

E allora perché non le assumete, direte? È questione di soldi? Sì e no. Il problema è che il livello di qualità e impegno di cui c’è bisogno per fare le cose bene, come le facciamo noi, è del tutto fuori mercato. Dina, la programme manager di Second Tree, nel suo lavoro precedente guadagnava 5000€ al mese, se ora prende un rimborso di 600€ vuol dire che non lo fa certo per i soldi.

Il piccolo rimborso che prendiamo (e che tra l’altro ci siamo autostabiliti assieme) serve a sopravvivere mentre diamo una mano. Se anche decidessimo di alzarlo un poco, a costo di fare meno cose, attireremmo persone che – legittimamente – sono interessate a quello, e quindi nel momento in cui ricevessero un’offerta da una grande e ricca organizzazione internazionale (come è successo a tutti noi nel giro di 3-6 mesi qui) accetterebbero.

Il segreto di Pulcinella del mondo umanitario è che le organizzazioni piccole e ben organizzate sono molto più efficienti, serie e rispettose degli impegni, oltre che estremamente più oculate col denaro, delle grandi organizzazioni internazionali, quelle che uno – almeno io lo pensavo – si aspetterebbe essere più professionali. E questo non perché ai vertici delle organizzazioni internazionali ci siano persone meschine o sciocche: ci sono generalmente persone molto brave e volenterose, che devono però lavorare con ciò che hanno. E con i (tanti) soldi che ricevono dai governi, sono costretti ad assumere per la maggior parte persone che non lo fanno per passione, che magari vengono da tutt’altro settore, e il considerarlo un lavoro come un altro si riflette nel lavoro che fanno.

E non sto rivendicando che Second Tree sia pura e non compromessa col sistema, figuriamoci: facciamo le stesse richieste di autorizzazioni al ministero e cerchiamo fondi e collaborazioni con quelle stesse organizzazioni, anche solo per piccole cose, come avere un passaggio per andare ai campi o una stampante nuova.

Zakia <3

COSA RIMANE

Stiamo provando a fare una cosa che non esiste, e probabilmente ci sono delle buone ragioni per le quali non esiste. Ed è per questo motivo che, visto che facciamo le cose in modo così particolare, l’unica maniera che una persona ha di rimanere a lungo termine è di venire e poi innamorarsi di quello che facciamo: è quello che è successo a tutti quelli che sono poi rimasti.

Mettere un annuncio per attirare persone, magari alzando un po’ il rimborso, non funzionerà: perché la mole di lavoro, l’impegno richiesto, i pochi soldi, sono evidenti a tutti; mentre la parte bella, quella che fa dire a tutti noi – come nel messaggio di Lucas – che questa è la cosa più significativa che avremmo mai potuto fare in vita nostra, è nascosta, la puoi vedere soltanto se sei qui e vedi ogni giorno perché Second Tree, per quel tipo di persone che siamo noi, vale molto di più di ogni altro lavoro, ed è una delle ragioni per le quali – stupidamente – non ci siamo resi conto di quanto questa bellissima cosa ci stesse mangiando.

Provare a ridurre la quantità di cose che facciamo non aiuterebbe, perché il problema non sono le attività sul campo, per le quali abbiamo un numero sempre sufficiente di volontarî che vengono per 3 mesi, bensì la struttura, lo sviluppo dei programmi, la raccolta fondi, il mantenimento e la gestione delle relazioni, e queste cambiano di molto poco all’aumentare o al diminuire delle attività che si fanno.

La mia paura è che saremo costretti a chiudere Second Tree e, nei prossimi 10 anni, incontrerò per caso tante persone di quel tipo lì, quelle che mi diranno “ah, cavolo se solo avessi saputo, era proprio la cosa che avrei voluto fare, ma non ci conoscevamo”.

E questo descrive la paura più grande, che è non esserci più per Zakia e per le migliaia di persone come lei che vivono qui e che ci conoscono e conosciamo per nome, e sarebbero perse senza quello che facciamo. Non riesco neppure a immaginare il cuore che ci toccherebbe o toccherà avere per andarglielo a dire. E tutto questo, in buona parte, perché siamo stati sciocchi a non rendercene conto prima. Anche questo, in fondo, è un pensiero egoista. La domanda che mi brucia dentro continua a essere: potrò perdonarmelo?

Se avete qualcosa o qualcuno in mente, scrivetemi: fontana@secondtree.org

Una versione più verbosa e sguaiata di questo post è stata pubblicata sul mio blog

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.