Cosa succede ora a Gaza?
Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.
Capitolo 1 – La strategia d’Israele (leggi qua)
Capitolo 2 – Israele e i civili (leggi qua)
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza?
Edit del 18/7: in questo pezzo spiegavo le ragioni che hanno portato all’invasione di terra dell’esercito israeliano. Ora che l’invasione è avvenuta, ho aggiunto in fondo qualche considerazione su cosa vuol dire e ciò che comporta.
Non è mai facile fare previsioni su quello che succederà, tanto meno in uno scenario di guerra. Nel breve termine, il quesito più importante è se Israele avvierà un’azione di terra o se una delle tregue proposte reggerà. Nel lungo termine, in che modo questo nuovo conflitto – e il riassestamento che ne seguirà – inciderà sul processo di pace, sia all’interno del fronte palestinese sia per Israele e la comunità internazionale.
La storia del conflitto israeliano è una storia di dimostrazioni di forza anziché di passi conciliatori. Nel corso dei varî processi di pace, con l’Egitto, con la Giordania, ora con la Palestina, gli accordi non sono mai stati fatti con le mani tese delle parti in gioco, ma con la presa di coscienza dell’impossibilità di annientare il nemico. Questo vale per i Paesi arabi come l’Egitto, che accettò l’esistenza d’Israele dopo quattro guerre perse; ma vale anche per Israele, che rinunciò a mantenere la parte di Sinai fino a Sharm el Sheik (definita da Golda Meir irrinunciabile) solo quando nell’ultima di queste guerre, nel ’73, Israele si rese conto che l’Egitto non avrebbe perso per sempre.
È con questa dinamica, perfettamente replicata quando il conflitto si è ristretto a Israele e Palestina, che si deve capire la storia recente: chi si dimostra più propenso alla pace, dimostra debolezza. È il motivo per cui negli ultimi dieci anni, dopo la costruzione del Muro e la virtuale fine degli attentati, Israele è molto meno interessata alla pace, e perciò meno disposta a fare sforzi, di quanto non lo fosse negli Anni 90. Per i palestinesi vale la stessa cosa, ma all’inverso. Fatah, che ha rinunciato alla lotta armata e non può più mettere sul tavolo la fine degli attentati, è molto indebolita al tavolo della trattativa. Al tempo stesso, negli ultimi anni si è dimostrata molto più interessata a trovare un accordo rispetto a Israele. È un ragionamento molto cinico, ma è purtroppo il filtro reale con cui capire la storia di questo conflitto.
È anche il filtro attraverso il quale interpretare le vicende di questi giorni. Dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, Israele ha voluto dimostrare che episodî simili subiranno pesanti ritorsioni. La Cisgiordania è stata militarizzata, e gli scontri che ne sono seguiti hanno innescato l’escalation che ha portato all’intervento israeliano. Il potere di deterrenza che Israele vuole conservare non è soltanto nei confronti di Hamas, ma anche nei confronti di Fatah, che con Hamas ha formato un governo di unità nazionale. Del perché di questa scelta di Fatah in risposta al nuovo fallimento dei negoziati di pace, e dell’isolamento di Hamas che non ha il pieno controllo della Striscia e delle proprie, o altrui, cellule più estremiste, parlerò in un prossimo capitolo.
Inevitabilmente, qualunque scontro fra le fazioni si trasforma in un gioco al rialzo: con ciascuna delle parti in gioco che vuole dare dimostrazione di forza e di non temere l’avversario. Sia Hamas che Israele avrebbero molto interesse a evitare un intervento di terra israeliano: da parte di Hamas, se Israele entra via terra, sequestrerà e distruggerà tutto l’arsenale che ora i miliziani tengono nei sotterranei e in aree non raggiungibili dai bombardamenti israeliani. Questo renderebbe Hamas completamente inoffensiva per diversi anni, dato anche l’isolamento che subisce da quando al potere in Egitto non ci sono più i Fratelli Mussulmani (la via Sudan-Egitto era l’unico vero canale di approvvigionamento di armi per Hamas). Al tempo stesso, Israele sa che – proprio per questa ragione – nel momento in cui decidesse di entrare con l’esercito a Gaza, Hamas darebbe fondo all’intero arsenale che, altrimenti, verrebbe distrutto nel giro di pochi giorni. In sostanza, Israele sa che se decide di entrare via terra, spinge Hamas alla resa dei conti, al tutto per tutto.
Non sappiamo quali informazioni abbia l’intelligence israeliana, ma è sicuramente su queste che verrà presa la decisione di intervenire via terra o meno. È certo che la decisione di Hamas di rifiutare il cessate il fuoco proposto dall’Egitto avvicina l’eventualità: è un messaggio a Israele che dice «non abbiamo paura di voi, siete voi a dover avere paura di noi». Attenzione: un cessate il fuoco non era una tregua, ed è difficile immaginare che Israele avrebbe accettato una tregua continuata senza il disarmo di Hamas (che non era previsto nei termini dell’Egitto), ma la scelta di Israele di tastare il terreno ha immediatamente subito il rilancio di Hamas, in questo chicken game (o gioco del coniglio) nel quale l’ultimo a voltare prima del burrone è il vincitore.
Nel momento in cui scrivo, Israele ha accettato l’accordo per un nuovo cessate il fuoco a cominciare da domani (venerdì) mattina, mentre non è chiaro se Hamas l’abbia accettato. Date queste premesse, e la violazione della tregua umanitaria di oggi attraverso lo stesso meccanismo (accordo di tregua, colpi di mortaio da Gaza, Israele che risponde immediatamente), è difficile immaginare che il cessate il fuoco di domani regga. E, in caso di violazione, è difficile immaginare che l’esercito israeliano non entri a Gaza. Del resto, un accordo di tregua nel quale Hamas non s’impegni a disarmarsi sarebbe considerato una grandissima vittoria per Hamas, e un’umiliante sconfitta per Israele. Ma è altrettanto difficile immaginare che Hamas accetti un accordo che preveda il proprio disarmo.
In questo senso, sembra inevitabile che si arrivi a un intervento di terra, inesorabilmente sanguinoso. L’unica possibilità che questo non succeda ha un nome: Iron Dome. Per ora, lo Stato israeliano ha attraversato questi giorni di conflitto quasi incolume. La morte del primo israeliano per un colpo di mortaio non ha inficiato l’immagine di infallibilità che Iron Dome ha, ma ha certamente spinto Netanyahu verso l’intervento. Un intervento con truppe di terra costerebbe moltissimo agli israeliani, che in questo modo metterebbero a repentaglio molte vite dei proprî soldati, per ora rimasti relativamente al sicuro. Uno scenario in cui Israele si sentisse completamente immune agli attacchi aerei di Hamas, sarebbe uno scenario nel quale Israele può rinunciare a un intervento di terra, tanto più che entrare a Gaza richiederebbe anche una strategia su come uscirne (Israele non vuole certo tornare a occupare militarmente quel lembo di terra minuscolo, con quasi 2 milioni di abitanti palestinesi).
Il principale punto debole di Iron Dome non è militare, è il costo. Ciascun missile intercettatore costa intorno ai 20 mila dollari, un prezzo che lo Stato Israeliano non è in grado di sostenere, e che lo spingerebbe verso l’intervento di terra. È per questo che è fondamentale una notizia di cui non si è parlato molto, cioè l’impegno al finanziamento di Iron Dome votato martedì dal Senato americano. Dei tre interventi a Gaza, questo è quello in cui gli attori esterni sono stati meno protagonisti. In realtà, l’intervento di questi (principalmente gli Stati Uniti, oltre l’Egitto e anche la Turchia) è fondamentale per la risoluzione di questo conflitto, la stabilizzazione della situazione a Gaza, oltre che – più importante di tutto – per l’intero processo di pace.
Di questo, di come ne usciranno le prospettive di pace, e delle posizioni di ciascuno degli attori in campo, parlerò nel prossimo capitolo.
– Aggiornamento del 18/07
Questa notte Israele ha cominciato la propria invasione di terra nella Striscia di Gaza. Hamas aveva rifiutato il primo cessate il fuoco e violato la tregua umanitaria di ieri mattina. Nel corso della giornata un funzionario israeliano aveva annunciato l’accettazione di un nuovo cessate il fuoco per stamattina, che Hamas non ha accolto, dicendo di non essere stata consultata prima della formulazione. Dati tutti questi elementi – e l’impossibilità di organizzare in poche ore un attacco di questo genere, che sembra essere stato autorizzato martedì, dopo il rifiuto della prima tregua – è probabile che questa seconda proposta israeliana fosse solamente una mossa mediatica, per dimostrare ancora una volta la mancata disposizione alla pace di Hamas. Questo ipotesi è confermata dal fatto che l’IDF abbia più volte citato la mancata accettazione di questa seconda tregua nel motivare il proprio attacco.
Le ragioni che hanno portato a questo attacco credo siano ben spiegate qui sopra. C’è però un elemento nuovo: Israele ha citato la distruzione dei tunnel di Hamas come principale obiettivo. Attenzione: non stiamo parlando dei tunnel fra Gaza e l’Egitto, di cui si è spesso parlato in questi anni. Bensì dei tunnel che Hamas costruisce per arrivare in territorio israeliano e compiere attentati terroristici. Di questi tunnel non si è mai veramente trattato, almeno dai tempi del rapimento di Gilad Shalit. Ieri, però, l’IDF ha pubblicato video e immagini di un commando palestinese che era entrata in Israele attraverso uno di questi tunnel, pronto a compiere un attacco terroristico.
Anche in questo caso, è difficile immaginare che questi tunnel siano il vero obiettivo dell’intervento, come dice Israele, ma piuttosto che le ultime notizie siano state usate per giustificare ciò che era già pianificato da tempo. L’attività di monitoraggio del confine israeliano e le pratiche per individuare e distruggere questi passaggi (qui c’è un datato articolo di Slate su 10 modi in cui Israele poteva combattere i tunnel con l’Egitto) sembra essere del tutto alla portata d’Israele: è sufficiente pensare che la salita al potere di al-Sisi in Egitto viene considerata determinante nella distruzione degli altri tunnel, quelli appunto con l’Egitto. È difficile pensare che ciò che riesce a fare il meno organizzato, interessato ed efficiente Egitto non lo riescano a fare l’intelligence e l’esercito israeliano, seppure su di un confine più grande.
Rimane da definire l’entità di questa nuova operazione, quanto Israele si spingerà in avanti nella Striscia e per quanto tempo dureranno le operazioni. Io non credo, come hanno invece detto in molti, che questo dipenderà da quanto Hamas risponderà al fuoco. Israele ha un piano ben preciso, determinato dalle informazioni dell’intelligence – rafforzate anche dall’identificazione delle minacce di questi giorni – e si atterrà a quello, non facendosi trascinare in operazioni improvvisate. Certamente Israele non ha alcuna intenzione di rimanere a Gaza con l’esercito, e il futuro della Striscia è sicuramente incerto. Non penso, tuttavia, che la Striscia finirà nelle mani delle milizie vicine all’Isis, come si sente dire in queste ore. Hamas ha un’infrastruttura – non solo di edifici e armi, che sarà colpita da Israele, ma di uomini – molto forte, e comandava a Gaza con mezzi dittatoriali. Non riesco a immaginare che, immediatamente dopo l’invasione, il vuoto di potere sia riempito da nessun altro che Hamas. Naturalmente posso sbagliarmi.
In tutto questo ci sono altre due cose da notare: 1) Il fatto che il governo egiziano abbia dato la colpa a Hamas dell’invasione israeliana, dimostrando una volta di più la svolta nei rapporti con Israele del nuovo governo egiziano e l’inimicizia fra il governo di al-Sisi e quello che era il braccio palestinese dei Fratelli Mussulmani. 2) La particolare posizione in cui si trova Fatah: Abu Mazen ha cercato più volte di imporsi come l’interlocutore col quale l’Egitto e Israele trattavano la pace, così da prendersene il merito (con il placet di Israele ed Egitto), ed è anche per questo che Hamas ha rifiutato ogni accordo. Questa prospettiva è però svanita con l’inizio delle operazioni di terra, e in questo momento Abu Mazen si trova nella paradossale situazione di dover sperare che l’invasione israeliana vada il meglio possibile, perché una qualunque pace in cui Israele faccia delle concessioni a Hamas sarebbe una gigantesca sconfitta anche per Fatah. Al contrario, se l’esercito israeliano dovesse riuscire a raggiungere i proprî obiettivi senza soffrire molte perdite, la leadership di Fatah potrebbe essere nuovamente convocata come unico interlocutore di Israele, per prendersi i meriti della fine delle ostilità.
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?) (leggi qua)
Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà? (leggi qua)