Perché il voto all’ONU sulla Palestina è una cosa buona
Il problema del conflitto israelo-palestinese è sempre stato che le due parti non hanno mai voluto la pace: per essere garbati, questo pensiero si formula con “non sono disposti a fare le concessioni necessarie alla pace”, che però vuol dire la stessa cosa. Più precisamente, non hanno mai voluto la pace nello stesso momento: ogni tanto una delle due parti si è mostrata più disposta a trattare, ma questa buona disposizione non è mai venuta in contemporanea.
Questo non è un caso: da sempre il conflitto arabo-israeliano è un conflitto che non si basa sulla conciliazione, ma sulla dimostrazione di forza. L’Egitto non avrebbe mai accettato la pace con Israele, se Israele non si fosse dimostrato invincibile, nel ’48, nel ’56, nel ’67. Ma Israele non avrebbe accettato la pace con l’Egitto se, nel ’73, non avesse avuto la dimostrazione che gli egiziani non avrebbero perso per sempre. Si può dire la stessa cosa della Giordania, e di tante piccole vicende nelle quali la pace è sempre stata una resa al realismo: non c’è modo di liberarcene, dovremo conviverci.
Per questo, e per quanto cinico possa sembrare, ciascuna delle due parti rimaste – Israele e Palestina – è sempre stata disposta a fare concessioni nel momento di maggior forza (contrattuale, non necessariamente militare) della parte avversa. È un circolo vizioso nel quale, ineluttabilmente, quando una mano si avvicina l’altra mano si allontana, ed è un meccanismo che difficilmente verrà spezzato dalle due parti in causa, specie se si considera la totale sfiducia reciproca maturata negli anni. È perciò una coazione a ripetersi che si può (e si deve) infrangere solo con degli interventi esterni.
In questo momento la parte meno disposta alle trattative è certamente Israele – tengo un momento da parte Hamas, su cui tornerò. La società israeliana ha vissuto il rifiuto dell’accordo di Camp David-Taba del 2001-02 come un tradimento dei proprî migliori sforzi, e il successivo lancio della seconda intifada come la dimostrazione che i palestinesi non fossero veramente interessati alla pace. Da lì in poi, i partiti più inclini alle trattative hanno continuato a perdere consensi (nelle ultime elezioni il partito laburista, quello che aveva governato Israele per i primi trent’anni di vita, quello erede di Ben Gurion, Golda Meir e Rabin, è sceso sotto al 10%), e l’opinione pubblica ha maturato un cinismo ben rispecchiato nella politica di Benjamin Netanyahu nei confronti del processo di pace: processo di pace? Quale processo?
Anche nello spiegare questo passaggio ci vuole un bagno di cinismo: la costruzione del Muro e la conseguente, virtuale, fine del terrorismo suicida ha privato l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) del proprio potere contrattuale. È per questo che la promessa della fine degli attentati, che negli anni ’90 era stato il principale impegno che i palestinesi avevano messo sul piatto, non conferisce la forza che aveva in sede di trattativa. Per questo in Israele si sono avvicendate due politiche: quella di Sharon e Olmert che si poteva, icasticamente, riassumere in «non ci possiamo fidare dei palestinesi, decidiamo noi cosa sarà Israele e cosa Palestina senza consultarli», e quella di Netanyahu che, altrettanto icasticamente, si può riassumere in: «non ci possiamo fidare dei palestinesi, facciamoli crescere economicamente e si dimenticheranno che gli manca uno Stato».
In questo senso Netanyahu sa che Israele non potrà mai aspirare, territorialmente, a niente più dello status quo – escludendo, ovviamente, deportazioni di massa, Ramallah o Jenin non potranno mai tornare sotto il controllo israeliano come prima degli Accordi di Oslo. Perciò il rimandare ogni trattativa è il modo migliore per evitare qualunque concessione. Allo stesso tempo, e proprio in ossequio al meccanismo richiamato sopra, l’ANP è disposta ad accettare concessioni e compromessi come mai era stato nella storia. Questa disposizione alla trattativa non può essere sempre pubblicizzata, perché non incontra il favore dell’opinione pubblica (come del resto è stato per ogni precedente trattativa, anche quelle poi andate in porto), ma è un dato di dominio pubblico almeno dalla pubblicazione dei “Palestine Papers“.
Perciò torniamo all’inizio: l’unica soluzione è l’intervento esterno di qualcuno, principalmente gli Stati Uniti ma il mondo in generale, che spezzi il circolo vizioso e avvicini – anche controvoglia – la mano meno tesa, in questo momento quella d’Israele. È questo il quadro in cui si inscrive il voto di ieri sull’ammissione della Palestina come Stato osservatore all’ONU. Delle varie obiezioni di parte israeliana a quel voto, nessuna tiene conto di questa attitudine. Nessuna mette in conto il rifiuto, a parole (o meglio, a silenzio) e nei fatti (con l’ininterrotta costruzione delle colonie), degli israeliani a qualunque trattativa. Tutti fanno presente l’unilateralità della decisione: in cambio di quel pezzo di legittimazione, che poteva essere usato nelle trattative, non è stato chiesto niente ai palestinesi.
Eppure ricordate quale fu la strada che, dopo Camp David, percorsero gli israeliani? Proprio quella dell’unilateralità. Il ritiro di Sharon da Gaza, fondato sull’idea che qualunque trattativa bilaterale fosse impraticabile, rispondeva a questa logica d’incomunicabilità. Così come la costruzione del Muro disegnava unilateralmente un confine – in diversi tratti oltre la green line, quindi illegale, ma sempre un confine. La stessa sfiducia, oggi, la vivono i palestinesi, e la vive la comunità internazionale, nei confronti d’Israele. È per questo che qualunque passo verso il riconoscimento palestinese è un passo che spinge Israele al tavolo dei negoziati, verso quella che sembra sempre di più una trattativa verticale e non orizzontale.
Due fratelli che non si parlano direttamente, che non si fidano l’uno dell’altro, e che necessitano di un terzo interlocutore – il mondo – per convivere nella stessa casa. È questa terza persona che deve farsi carico delle richieste dei due, così da evitare di personalizzarle: configurare la nascita dello Stato palestinese come una richiesta che fa il mondo, e non soltanto i palestinesi, è anche l’unico modo per impedire l’innestarsi della spirale di recriminazioni: ma loro hanno queste colpe!, anche voi avete quest’altre!, e così via. Tutto vero, ma che non aiuta. Se l’unico modo che i due fratelli hanno per parlarsi, e per convincersi che non c’è altra via alla convivenza, è attraverso la legazione del terzo coinquilino, che così sia.
Poi c’è Hamas sul quale si aprirebbe un discorso ben più lungo e complesso. Intanto c’è un dato: questo riconoscimento diplomatico è una vittoria di Mahmud Abbas (Abu Mazen), e lo è ai danni di Hamas, che ha sempre predicato l’inutilità di qualunque trattativa con un mondo al servizio degli ebrei, e che ora infatti cerca di ascrivere a sé – e all’aver “vinto” il conflitto a Gaza – i meriti della risoluzione. Nel momento in cui si dovesse convincere Israele a sedere al tavolo della trattativa, questa legittimazione risulterebbe ancora più importante. La speranza è sempre quella che un eventuale accordo di pace siglato da Fatah possa spingere un Hamas più debole a riconoscere Israele usando Abbas come capro espiatorio per le concessioni fatte: la partita principale, e cioè il braccio di ferro delle concessioni, non è su Gaza (controllata da Hamas) dove non ci sono più colonie, ma sulla Cisgiordania (controllata da Fatah).
Se si mettono assieme tutte queste cose, il riconoscimento di ieri è un piccolo (piccolo, piccolo) passo verso la pace in Israele e Palestina. Non una pace condivisa, non un cammino di riconciliazione – quello forse (forse) verrà dopo –, non l’abbraccio catartico fra due fratelli litigiosi. Solo la realistica considerazione che non essendoci modo di liberarsene, bisognerà conviverci. Insomma, come disse una volta Shimon Peres, che prima ancora di cercare la luce in fondo al tunnel, bisogna trovare il tunnel.