Contro iCloud
Dopo mesi di attesa passati a stendere molteplici piani strategici in vista delle diverse possibilità di utilizzo di iCloud sulla base delle poche info a disposizione, armati del miglior ottimismo della ragione tipico dell’utente Apple – ma vuoi che non faccia questo? e questo?! ma certo, e poi figuriamoci se… – ecco arrivare il gran giorno. Un iPhone, un MacBook, un iPad e, finalmente, iCloud. Ci siamo tutti ora: la nuova era, quella della nuvola, può cominciare. Basta artefizi e accrocchi con servizi terzi e scricchiolanti. Tutto Apple, tutto fatto-per-me, per me e i miei bisogni.
Non è andata proprio così. Dopo un update di per sé vagamente infinito – ma diamo colpa alle patetiche infrastrutture dell’italico suolo e chiudiamola qui – al nuovo iOS e dopo aver settato un account iCloud sentivo di essermi meritato che, in pieno stile Apple, tutto andasse a posto da se. Sì? No! La posta? Solo se apro l’ennesimo account. I contatti? Le poche ma proprio per questo preziose omonimie hanno prodotto un mostro, il contatto unificato. I calendari? si sono magicamente moltiplicati a fattori irregolari, qualcuno due, altri tre volte, e quelli su Google (ne ho alcuni condivisi con persone che usano… Google) se ne sono andati come lacrime nella pioggia. Le note? modalità random: se scritte sull’iPhone non appaiono su iCloud, al contrario a volte sì a volte no. I documenti? necessariamente mediati dall’utilizzo di iWork e del suo porting mobile. Un disastro? Sì.
Non ho, come molti, forse tutti, molto tempo. Uso Apple da sempre anche perché da sempre mi ha consentito di non ingombrarlo inutilmente, uno stile che non si ritrova in iCloud. L’investimento fatto in server di cui si è parlato spesso in questi mesi non si è trasformato in utilità: il sistema circolare di Apple questa volta non si chiude e riverbera diverse critiche del passato, dal protezionismo alla chiusura rigida di un sistema proprietario.
Niente da fare, non ce la fanno. Mobile Me, Me, iCloud: chiamatelo come volete. Non va, non funziona, soprattutto non è Apple: sono scarse la funzionalità, l’interfaccia, le possibilità di controllo. E preoccupa che l’elenco delle cadute sia ormai piuttosto nutrito: ad iCloud posiamo accompagnare Face Time (su dai, quanti lo usano fra voi?) e buonanima Ping (Ping… uggesù!). A Cupertino pare non vogliano capire la rete e le sue dinamiche, le sue tassonomie: oppure ragionano su numeri che a noi comuni mortali non sono noti. Davvero ci sono tutti questi utenti di iWork, o disposti a passare ad iWork? Davvero vogliamo l’ennesimo account? E quelli di lavoro, con domini necessariamente diversi? E comunque: e tutti gli altri? Non ci piacciono, non li vogliamo, ci fanno schifo? Li vogliamo solo alle nostre condizioni?
Questa cosa succede un po’ a tutti quelli che arrivano da laggiù, dagli anni Novanta: per fare un esempio, l’acquisto di Skype da parte di Microsoft non ha certo migliorato la qualità del software, anzi, e la successiva integrazione con Facebook men che meno, tant’è che a forza di vociferare delle chat dell’uno e degli Hangout dell’altro andrà a finire che Google+ e FacciaLibro verranno usati direttamente e non perché integrati. Pare un gap di mentalità, di cultura.
Passare i propri dati in rete richiede sicurezza, semplicità. E sulla nuvola, oggi, impegnarsi a usare iCloud non è di nessuna utilità a fronte di servizi quali Dropbox, Plaxo o la suite di Google. Apple avrebbe potuto fare la differenza basandosi su quello stile asciutto e funzionale con cui ha trasformato l’informatica da un bailamme alchemico a un bauhaus funzionale. Invece ci troviamo di fronte, dal mio umile punto d’osservazione, a una mancata lungimiranza unita a una debole tecnologia, mentre dopo il mezzo passo falso di Mobile Me sarebbe stato necessario uscire con un prodotto forte, un “mai più senza”, un insostituibile oggetto-attrezzo. Vabbé, sono stati tempi duri, ragazzi, lo sappiamo. Ma metteteci una pezza, va bene?