La necessità del logo

Deve essere successo intorno agli Ottanta. È stato allora che si è affermata definitivamente l’idea che qualunque cosa tu stia facendo, indipendentemente dal suo valore e significato, hai l’assoluta necessità di avere un logo.

Non parlo naturalmente dei marchi commerciali che, fin dai tempi della celeberrima AEG di Peter Behrens nel 1907, hanno contraddistinto il panorama visivo di quest’ultimo secolo. Parlo proprio del “logo”, quella sineddoche di successo che ha estrapolato ciò che era sola una parte del marchio, la parte tipografica o logotipo, elevandola a rappresentazione dell’identità stessa. Che tu sia un’associazione non governativa, una manifestazione estiva, una città o un gruppo heavy metal, se non hai un logo non sei nessuno. Anche i partiti hanno smesso di avere simboli preferendo, anch’essi, abbracciare la religione del logo. Di tutto quello che la comunicazione visiva poteva avere da insegnare, solo l’indispensabilità di un logo si è sedimentata nel grande pubblico e spesso il dibattito da curva sud che si scatena alla presentazione di questa o quell’identità è l’unica testimonianza che filtra attraverso i grandi media dell’esistenza di un mondo del progetto visivo.

Anche gli amministratori pubblici, naturalmente, hanno appreso l’importanza di disporre di un’identità visiva, di un logo insomma, ma così come per il grande pubblico, quello che manca è la relazione tra il logo e il progetto che lo genera. Un progetto che seguendo il metodo del design sia in grado di sintetizzare in una forma grafica efficace — logotipo, pittogramma o diagramma che sia — gli elementi da comunicare.
Diceva Paul Rand, un designer che ha contato al suo attivo una lunga serie di marchi celebri, che un logo deve essere “distintivo, memorabile e chiaro”, ma che una correlazione diretta tra il simbolo e ciò che è simbolizzato non solo è impossibile ma è assolutamente da evitare. Con ciò si vuole intendere che un logo di una città non necessariamente deve riprodurre il principale monumento di quella città, che un logo di una corsa di biciclette non necessariamente deve rappresentare il paesaggio in cui quella corsa si svolge. Serve, per dirla in altri termini, il lavoro di un visual designer che conosca la metodologia del progetto grafico e della sintesi visiva.

Ogni giorno invece si continua a cadere nell’equivoco di considerare un logo, per il solo fatto di essere un elemento grafico, alla stregua di un’illustrazione o di un disegno, senza accorgersi che si tratta di due linguaggi non solo completamente diversi ma che hanno finalità assolutamente divergenti. Ed ecco allora amministrazioni pubbliche — che hanno, d’altra parte, uffici comunicazione formati da giornalisti ma non da designer — che commissionano la realizzazione del logo in questione alle più fantasiose professionalità. Ad architetti, ancorché famosi, come per la prima versione del logo del Festival internazionale del film di Roma
e per il Festival della creatività (comprensivo della firma dell’autore), a pittori, come nel caso dei mondiali di ciclismo di quest’anno o direttamente a impiegati comunali.

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Quello che è accaduto per il recentissimo logo di “Firenze capitale” non si era infatti ancora visto. Il comune è ricorso, adducendo sempre valide ragioni di budget, all’autoproduzione interna precipitando la manifestazione fiorentina, con l’utilizzo delle clip art gratuite, in un inconsapevole e grottesco plagio di più che mediocri precedenti.

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È ancora una volta, così come per i concorsi di grafica indetti dalle pubbliche amministrazioni nelle più disparate modalità e di cui ci è già capitato di parlare, la palese dimostrazione dell’assoluta “trasparenza” della figura del designer della comunicazione.

Gianni Sinni

Grafico, si occupa di comunicazione responsabile