D’après Berlusconì
In questi giorni fioccano le analisi sulla fine di un’era politica. Se il berlusconismo è davvero finito o no lo vedremo nei prossimi mesi, è certo però che per molto tempo risentiremo dei pesanti lasciti di questa epoca. Berlusconi in politica non è riuscito a dare alcun seguito alle sue promesse di rivoluzione liberale, ma c’è un campo nel quale il cavaliere appare come un vero proprio innovatore, uno stratega creativo che ha lasciato un segno destinato a durare nel tempo e quest’ambito è la comunicazione politica.
Se guardiamo all’attuale stato dell’arte della comunicazione politica italiana ci sono pochi dubbi che le principali trasformazioni che si sono andate affermando nel corso degli ultimi diciassette anni non portino il marchio inconfondibile di Silvio Berlusconi.
Una delle innovazione più evidenti è stata quella di trasportare fuori dagli spazi (gratuiti) e dai tempi definiti dalla legge, la maggior parte della comunicazione politica elettorale. A cominciare dalle elezioni del 1994 (quelle della “discesa in campo”) e del 1996 e, più massicciamente, durante la campagna del 2001, Berlusconi ha occupato, nei mesi precedenti l’inizio della campagna elettorale vera e propria, una fetta consistente degli spazi pubblicitari a pagamento delle affissioni outdoor con i suoi celeberrimi slogan 6×3.
Una scelta che gli ha permesso, a suo tempo, di aggirare i tetti spesa delle campagne elettorali e di sdoganare, a suon di milioni, gli spazi pubblicitari urbani, così come quelli televisivi, per la comunicazione politica. La propaganda ha fatto così breccia, attraverso canali fino ad allora inutilizzati, nel muro dell’indifferenza di una larga fetta della popolazione e ha trasformata la competizione politica in una gara al rialzo, sempre più costosa, dove il più ricco contribuente italiano era inevitabilmente anche il più avvantaggiato. D’altro canto la misteriosa campagna “Fozza Itaia!” del 1993, secondo alcuni una prova generale per la fondazione del nuovo partito berlusconiano, si presentava come una campagna pubblicitaria per promuovere le società delle grandi affissioni allora in grave crisi economica.
Verrebbe da domandarsi come sia stato possibile che tutte le forze politiche si siano accodate immediatamente, nonostante taroccamenti, ironie e satire sull’onnipresenza mediatica di Berlusconi, a seguire il suo esempio con un enorme dispendio di risorse economiche ma, soprattutto, senza riuscire a eguagliare la sua capacità persuasiva — Dilberto in effige sul 6×3, solo per fare un esempio, era del tutto fuori contesto.
La risposta è che vi è stata un’oggettiva convergenza di interessi che ha riguardato tutti i partiti. Una convergenza rappresentata dalla legge sui rimborsi elettorali che incentiva in modo abnorme le spese dei partiti. Nel 1996 le spese elettorali di Alleanza Nazionale e Forza Italia assommavano a circa 5 milioni di euro mentre nel 2008 il Popolo della Libertà ha speso 68 milioni e rotti ricevendo però come rimborso dallo stato 18 milioni per il ’96 e ben 206 milioni per il 2008. Stessa cosa è avvenuto per il Partito Democratico che ha visto gonfiare le proprie spese elettorali dai 7 milioni del ’96 (Ulivo, Ds, Margherita) ai 18 milioni del 2008 mentre i relativi rimborsi sono aumentati rispettivamente da 17 a 180 milioni di euro. Non sono rimasti esclusi da queste spese incontrollate neanche i duri e puri: Rifondazione Comunista che spendeva 800.000 euro nel 1996 è passata a 2,7 milioni nel 2006 ricevendo in cambio prima 2 e poi 34 milioni di rimborsi; la Lega è passata da 1 a 3 milioni di spese e da 4 a 37 milioni di rimborsi.
Ma vi è forse una ragione in più, la convinzione unanimamente diffusa fra i partiti di ogni orientamento che il marketing politico sia ormai l’unica strada su cui convogliare una propaganda efficace.
Può darsi che elementi di marketing politico siano stati già presenti in passato (vedi ad esempio quanto descritto da Edoardo Novelli nel suo La turbopolitica), ma è con Berlusconi che questi vengono utilizzati scientificamente in una struttura comunicativa coerente e efficace (il marchio pubblicitario disegnato da Cesare Priori nel 1994 per Forza Italia, il merchandising di partito, i manifesti 6×3, i sondaggi di Pilo e Crespi, il “Contratto con gli italiani”, l’inno, eccetera, eccetera). E, paradossalmente, il principale riconoscimento dell’efficacia di tali mezzi viene proprio dai suoi oppositori che hanno finito, in ritardo, per calcare le sue stesse orme. È per questo che la grammatica oggi più diffusa in politica, ma anche per qualunque comunicazione istituzionale, è ormai quella della pubblicità (ne abbiamo già parlato), un linguaggio seduttivo ed emotivo attraverso il quale il contenuto — le buone idee — diviene del tutto marginale rispetto alla modalità di comunicazione. Una rassicurazione non da poco per ogni politico e amministratore pubblico.
Questo è il contesto che Berlusconi lascia in eredità alla comunicazione politica italiana e che continuerà a caratterizzare sicuramente i prossimi anni a venire. Ma in un momento di profonda trasformazione possiamo vedere, se siamo ottimisti, l’opportunità per riportare al centro del dibattito anche le modalità con cui i partiti comunicano con i cittadini. Nuove tecnologie, nuove forme e soprattutto nuove idee.
La recente affermazione di Bersani fatta durante il comizio romano che che la politica non è comunicazione («la comunicazione sta alla politica come la finanza all’economia») sembra purtroppo indicare che la marginalità comunicativa del principale partito di opposizione rimanga assicurata. La politica è buona comunicazione.