Aaron Sorkin, matematico della parola
La scrittura di Aaron Sorkin e i suoi dialoghi non sono come jazz. Sembrano esserlo. Ma in realtà sono una cosa diversa. Hanno lo stesso andamento. Conservano la stessa scintilla esplosiva e – a tratti – improvvisata. Ondeggiano, s’adeguano, hanno una musicalità unica. Sono elastici come sono elastiche le corde di uno strumento: le scuoti, le smuovi, le tiri, e poi ritornano come prima. Ma sono come matematica.
Quindi tutta l’improvvisazione è solo apparente, è solo un artificio, è solo una sensazione: quando uno sceneggiatore è così bravo, riesce a convincerti di qualsiasi cosa. E Sorkin non è solo bravo, è uno dei più bravi. Racconta spesso i suoi inizi. Ai giornalisti piace chiederglielo. E parla sempre della stessa storia: di quando era bambino e andava a teatro con i suoi genitori. Parla dell’innamoramento improvviso per la parola – intesa come suono, non come significato – e per l’andamento ritmico di quello che sentiva. Avvolge tutto in un mantello di romanticismo, di passione, e fa bene. È uno dei più bravi, dopotutto.
Ma è importante ricordare che stiamo parlando di scrittura: di segni lasciati su un foglio, di qualcosa che viene discusso decine e decine di volte, che viene rimaneggiato, rivisto e rimaneggiato ancora. È matematica. Pura matematica. O, se preferite, è una coreografia di danza. Al posto dei ballerini, ci sono le parole. E al posto dei segni bianchi sul pavimento, c’è la punteggiatura. E si prova, riprova, si torna indietro e si ricomincia daccapo infinite volte. Ad ogni battuta corrisponde una controbattuta e ad ogni controbattuta corrisponde un’altra controbattuta. È una partita di tennis, di ping pong; sono gli scacchi senza il ticchettio di un orologio che tiene il tempo, ma con una previsione precisa di ogni mossa.
C’è uno schema. Forse non è subito visibile, ma c’è. Basta fare un passo indietro, allontanarsi per un momento dal film o dalla serie, e provare ad ascoltare quello che non viene detto. Perché anche le pause, nella scrittura di Aaron Sorkin, sono importanti. E anche quelle, come nella musica, vanno suonate.
Pensate alla scena d’apertura di “The Social Network”: Jesse Eisenberg, che interpreta Mark Zuckerberg, e Rooney Mara, che interpreta Erica Albright, la sua fidanzata. Pensate a come si guardano, all’andamento della loro conversazione, al crescendo. Eisenberg/Zuckerberg dice una cosa, alla Mara/Albright non piace; prova a rimediare, ma non riesce, allora rilancia e continua. L’errore si allarga come una macchia d’olio, e se lui è impassibile (fino a un certo punto, in realtà) lei si scalda, si arrabbia, è emotiva: è umana. Pensate al dialogo di “Moneyball” nei camerini, con tutti i selezionatori; pensate a Brad Pitt che rilancia frase per frase, parola per parola. Voi non vedete nemmeno il problema, dice. Ma certo che lo vediamo, gli rispondono. Qual è il problema, allora?, chiede. Game, set, match.
Pensate al monologo di Jack Nicholson in “Codice d’onore”, alle parole che urla, a come le urla. O a quello che Jeff Daniels dice in “The Newsroom”, proprio in apertura. Perché gli Stati Uniti non sono più il più grande paese del mondo. O pensate ai tantissimi, stupendi dialoghi in “The West Wing”. A “Molly’s Game”, al confronto tra Jessica Chastain e Idris Elba. Sono brillanti, le loro battute sono affilate come lame, palleggiano come due giocatori di pallavolo, e la palla è la parola, e i movimenti che compiono, come si spostano nella stanza in cui si trovano, sono la rete.
E pensate anche a “Steve Jobs”, il film diretto da Danny Boyle. Lì succede qualcos’altro. Lì, la dimensione teatrale, tanto cara a Sorkin (il suo adattamento de “Il buio oltre la siepe”, a Broadway, è stato un successo), incontra quella cinematografica. E le scene si contraggono ancora di più. Sono sempre ambientate in un teatro, in una stanza, in un camerino, sul palco o nel backstage. In un luogo delimitato, insomma. E i dialoghi – Michael Fassbender e Kate Winslet, Michael Fassbender e Jeff Daniels; Michael Fassbender e Seth Rogen – sono un gioco di lanci e di rilanci, di intenzioni e di ostacoli. Ecco, sì: intenzioni ed ostacoli. Ogni volta che Sorkin parla della sua scrittura, del suo processo creativo, accenna sempre allo scontro tra intenzioni – quello che un personaggio vuole fare – e ostacoli – quello che, invece, impedisce ad un certo personaggio di fare quello che vuole fare. E a questa cosa Sorkin pensa per mesi interi. E nel superamento di questo scontro, trova la vera identità, il vero carattere, del personaggio.
Prima che dal significato stesso delle parole, Aaron Sorkin si lascia coinvolgere dal loro suono. Proprio come quando era bambino e andava a teatro con i suoi genitori. Trova la musica, ma non lascia che sia la musica a condurlo. Lui, per citare il suo Jobs, “suona l’orchestra”. (Alla fine, in ogni film c’è qualcosa di Sorkin, del suo talento, della sua consapevolezza). E vuole che tutto sia perfetto, che tutto sia ordinato, che tutto abbia il suo peso e la sua misura. Quelle che sembrano essere le sceneggiature più naturali e spontanee che siano mai state scritte sono in realtà delle equazioni di parole.
Dietro c’è l’amore di un uomo per la scrittura (“The West Wing” è anche questo: un lunghissimo trattato, ambientato nella Casa Bianca, su come si scrive e su come si comunica). Dietro, c’è il talento di leggere le persone, di ispirarsi a quello che dicono, e di dare ritmo – che parola meravigliosa – a qualunque tipo di dialogo. Perché se c’è ritmo, una scena ha spessore, ha equilibrio, ha peso. Se c’è ritmo, anche un processo come quello raccontato in “The trial of Chicago 7” riesce ad appassionare.
Se oggi celebriamo “The Social Network” (dieci anni dall’uscita al cinema: auguri!), è in buona parte per quello che Sorkin ha scritto. Che non è jazz. David Fincher è un perfezionista, ha visto la matematica della sua sceneggiatura, ha visto la sua musica, e le ha seguite il più possibile. Perché anche Fincher è uno dei più bravi, e i più bravi, contrariamente ai mediocri, quando vedono il talento lo riconoscono immediatamente.