L’importanza del punto di vista femminile
Qualche settimana fa, Brit Marling – attrice e sceneggiatrice americana, classe ’87 – ha scritto un lungo articolo per il New York Times intitolato “I don’t want to be the strong female lead” (se vi va, potete leggerlo qui). Ed è un articolo importante per diverse ragioni. Prima di tutto perché la Marling racconta in modo dettagliato la sua carriera; evita, è vero, di fare nomi di produzioni e film, ma dà un’idea abbastanza precisa di cosa voglia dire, e di cosa abbia voluto dire, essere un’attrice della sua generazione, a quali offerte di lavoro si sia abituata nel tempo, e come poi, per lei e per poche altre, le cose siano cambiate.
Si è passati da un estremo all’altro, fa notare la Marling. Dalle proposte sempre uguali di ruoli abbastanza prevedibili come mogli, figlie, fidanzate, donne uccise, violentate e rapite, a proposte un po’ più elaborate ma, per quanto assurdo, ugualmente piatte: la donna forte, la donna protagonista, l’eroina; colei che è in grado di cambiare la situazione, e che è, di fatto, una riproposizione in chiave femminile, senza nessun grande cambiamento, di ruoli già visti e interpretati da uomini.
Quello che dice la Malring, che comunque può parlare da una posizione particolare, più unica che rara, avendo sviluppato anche serie e progetti come scrittrice (come per esempio “The OA” di Netflix), è che questo sistema bipolare, fatto di opposti e di poche vie di mezzo, è assurdamente distaccato dalla realtà. “Io non voglio più essere la protagonista forte”, dice. È evidente che una parte dell’industria audiovisiva non venga rappresentata. E per rappresentazione non s’intende esserci in ruoli che sono già stati di altri, con le stesse battute e la stessa profondità di caratterizzazione.
Rappresentazione significa poter mettere in scena – o poter raccontare, o dirigere o scrivere – la propria parte di racconto, la propria parte di verità, e intuire qual è la complessità che si cela dietro un determinato personaggio. Insomma, non ha più senso parlare di bianchi o di neri, o cercare di raccontare qualcosa – e, più spesso, qualcuno – senza prima comprenderlo a fondo; senza prima provare a restituirgli una sua coerenza. Non serve a nessuno ripetere gli stessi schemi, le stesse strutture narrative e riprendere sempre gli stessi spunti. Bisogna cambiare: bisogna trovare una nuova strada, un nuovo percorso.
La Marling sottolinea con efficacia quello che sempre più spesso sta succedendo a Hollywood. Per qualcuno vedere film di supereroi con protagoniste donne, dirette da donne, è una grande rivoluzione; e, in parte, è vero. Ma bisogna anche provare a capire come quelle protagoniste vengano pensate e scritte, e quanta libertà effettivamente venga lasciata alle registe. Il percorso che viene immaginato, la crescita di queste protagoniste, sono in qualche modo diversi, o più spontanei, dal percorso e dalla crescita dei protagonisti uomini? Il viaggio dell’eroe riesce in qualche modo a riadattarsi, a mutare, a trasformarsi in qualcosa di nuovo? (A questo proposito, c’è l’analisi di Sara Mazzoni su N3rdcore).
Allargare i punti di vista alle donne, invitando scrittrici, attrici, produttrici e registe a dire la loro, è – dice sempre la Marling – un atto non dovuto, ma necessario: necessario per la sopravvivenza di un certo modo di raccontare e di intrattenere; e necessario, più in generale, per la società. Non bisogna ragionare forzatamente; non bisogna a tutti i costi cercare di vendere un brand che “ehi, è inclusivo, guardate quante donne”; quello che conta, e che è diventato oramai fondamentale, è dare spazio e opportunità, ascoltare più voci, da più prospettive, senza limitarsi a tradurre una cosa pensata da e per uomini in una cosa interpretata, o diretta, da donne.
Semplicemente non funziona così. O meglio: non dovrebbe funzionare così. Un mondo in cui viene naturale, anche alle donne, pensare come gli uomini, porsi gli stessi obiettivi e accontentarsi di una narrazione che sia sufficiente ma non soddisfacente è un mondo limitato. Un mondo a metà. Un mondo che non vive per il futuro, ma che vive ancorato al passato. Ed è un problema. Per tutti. Non solo per le donne.
Quello che bisogna combattere è il pensiero dominante; il pensiero dato per scontato. Il pensiero che, chissà perché, chissà su quale base, è sempre quello giusto. Bisogna essere più critici, e il modo migliore per mostrare questa voglia di cambiamento è attraverso le storie: quelle che raccontiamo, che immaginiamo e che, soprattutto, vorremmo ascoltare.
Continua la Marling nel suo articolo: “Io non voglio né essere la donna ammazzata né la moglie di Dave”. E chiude: “Non ci sono soluzioni, non ancora”. Ma un primo passo può essere parlarne insieme. Senza perdere di vista la qualità e la coerenza narrativa. Senza insistere con un’idea politicamente corretta e costretta di partecipazione. Bisogna leggere (e la Marling cita diverse autrici, che hanno avuto un’influenza incredibile su di lei, proprio quando aveva deciso di ritirarsi), e bisogna ascoltare. Sembra facile, sembra banale, ma non lo è: è una sfida. E le storie migliori sono proprio quelle che nascono dalle sfide più difficili.