La cosa migliore di “Mindhunter”
Contiene qualche piccolo spoiler sulla seconda stagione di Mindhunter, avvertiamo.
La cosa migliore di “Mindhunter” non sono né le indagini, né la ricostruzione degli anni ’70 – i colori, i suoni, i tagli di capelli; i vestiti rigidi e tagliati precisi, la moda femminile, le riviste, la politica e la cultura. Ma le interviste. Quelle che gli agenti Holden Ford e Bill Tench – rispettivamente interpretati da Jonathan Groff e da Holt McCallany – conducono nelle carceri degli Stati Uniti, incontrando assassini seriali, mostri d’altri tempi e sessuomani compulsivi.
In teoria, dovrebbero essere il tasto dolente. Il collante. Quello che unisce, insomma, il prima e il dopo, che traghetta la storia altrove, che ci mostra qualcosa di più del dietro le quinte e che, allo stesso tempo, ci apre altre prospettive: sulla trama principale, per esempio; o comunque sull’ambientazione in cui la serie diretta e prodotta da David Fincher si sviluppa.
E invece sono la cosa più interessante e appassionante. Merito, in primis, della sceneggiatura (firmata o co-firmata in buona parte da Joe Penhall, creatore della serie). E quindi di come le battute sono state pensate e scritte, e di come una parte – l’intervistato – e l’altra – l’intervistatore – interagiscono. Ci sono tempi precisi, c’è un ritmo; c’è un’alternanza che riesce a tenere alta la tensione, e che cattura l’attenzione dello spettatore.
Nella prima stagione, l’apice delle interviste viene raggiunto con l’incontro tra Holden e Ed Kemper (interpretato da Cameron Britton) in ospedale. Parlano, si guardano, c’è un momento in cui si sfiorano. E Holden collassa, subisce in pieno la paura e l’ansia. Ha un attacco di panico. È una scena potente e decisiva, che sottolinea magistralmente quanto le parole, in questa serie, siano fondamentali. Ma c’è anche la musica composta da Jason Hill, che riempie le pause, che le inspessisce, e che riesce a dare al copione un crescendo. Anche se alla fine quello che viene detto non è niente di estremamente esaltante.
Si tratta di giocare con la percezione di quello che succede, e di restituirla duplicata, se non addirittura triplicata, all’audience. È l’equilibrio che tiene insieme, bilanciandole, immaginazione e suggestione, che supera il sottile confine del genere, del crime più puro, e che arriva anche oltre, fino alla finzione televisiva più profonda: quello che non è mai stato e che per una trovata narrativa, per una necessità drammaturgica, improvvisamente succede. Non si tratta solo di rivestire di credibilità la storia; si tratta soprattutto di darle una sua coerenza, e di fare in modo che qualunque cosa, anche la più assurda, funzioni.
Le interviste di “Mindhunter” hanno una dimensione teatrale, dove entrambe le parti si prestano a un gioco di potere e di influenza. Spesso a spuntarla sono gli assassini. E l’incontro con Charles Manson (Damon Herriman), in questa seconda stagione, ne è una prova. Manson arriva in ritardo, si fa aspettare, si lascia precedere dall’idea che la gente ha di lui, da quello che si dice in giro sia in grado di fare; e poi, solo poi, solo dopo che ha saputo che i due agenti dell’FBI sono andati da Kemper, si fa vedere. È basso, e per questo si siede sullo schienale della sedia, per stare più in alto rispetto ai suoi intervistatori. Tiene la testa sempre inclinata di lato, e gli occhi sgranati. Vive la sua storia, prima che la sua verità.
La sua verità la racconta ai due agenti successivamente; gliela ributta in faccia, mentre continua a crearsi, e a sostenere, la sua leggenda. Holden in parte cede al suo fascino. Bill, invece, resiste – e anzi si incattivisce, aggredendo Manson, insultandolo, accusandolo. Ma c’è sempre, tra le due parti, quella separazione fisica e spaziale che non gli permette di toccarsi.
L’unico momento in cui questa lontananza viene meno è quando Manson chiede a Holden i suoi occhiali da sole, e Holden glieli dà. È solo un momento – un momento che sa di intimità, e in cui Manson smette di essere Manson e diventa una maschera, un teatrante, uno che si sta preparando per un altro colpo di scena (le guardie restituiranno ad Holden i suoi occhiali, dicendo che Manson glieli ha rubati).
Le interviste di “Mindhunter”, però, colpiscono anche per un altro motivo. Ed è forse quello più importante. Quasi sempre, quando l’FBI incontra i serial killer, non ci sono pregiudizi. C’è una parte – quella che interroga – che va dall’altra – quella che viene interrogata – per apprendere. E quindi pone le sue domande genuinamente, dando voce alle stesse perplessità e alle stesse curiosità del pubblico, che in questo modo, anche se brevemente, si “sente” – virgolette d’obbligo – rappresentato.
Si alternano di nuovo i piani, e si mischiano e si miscelano furiosamente. Non c’è bene, non c’è male; c’è solo quello che successo, e quella che resta una serie di finzione, una serie con una sua trama, un suo andamento ben preciso, smette per un attimo di essere, di andare, di correre, di inseguire, e ascolta. Diventa quasi un documentario. E non è un documentario di fatti e di cronaca, ma un documentario che attesta, documenta appunto, un fraseggio tra due parti. Ed è questa la cosa più incredibile: siamo interessati – noi, gli spettatori – a quello che tre persone si dicono. A quello che si rispondono. Non a quello che fanno o hanno fatto – le azioni, durante le interviste, restano sullo sfondo; fanno parte della scenografia.
Sono la tensione, l’intenzione, quanto le due parti si abbandonino al momento, che ci appassionano. Ed è qui, poi, che “Mindhunter” si contraddistingue, che da serie diventa una grande serie: invita il suo pubblico all’attenzione, a godersi ogni istante, a non sottovalutare la verbosità delle scene ma, al contrario, a ricercarla. Ed è l’antitesi dell’intrattenimento mainstream di oggi: non è alla pancia di chi guarda che punta “Mindhunter”, ma alla sua mente.