Il ragazzo più felice del mondo
Come ha fatto in molti dei suoi fumetti, anche ne Il ragazzo più felice del mondo (Sconfini, Venezia 2018; al cinema a novembre, produzione Fandango) Gipi usa sé stesso come pretesto. Ci mette la faccia, la voce e tutto quello che pensa, ma non lo fa per raccontarsi; semmai lo fa per mostrare qualcos’altro, qualcosa che, lì per lì, può sfuggire, ma che alla fine, complice la messa in scena, le risate e la povertà – necessaria sì, ma dignitosa – del film, viene fuori.
Il ragazzo più felice del mondo parla di storytelling. Più precisamente: delle responsabilità che si hanno quando si vuole raccontare una storia. Perché è una cosa complicata, perché c’è sempre il rischio di esagerare per farlo; e perché spesso, troppo spesso, come succede anche a Gipi, si finisce per lasciarsi travolgere, e la storia prende un’altra piega: da cosa narrata a cosa subita.
Ne Il ragazzo più felice del mondo, si passa da un simil-mockumentary (quindi interviste, occhi alla camera, Gipi che spiega) a un road movie, e si passa anche da una narrazione quasi in prima persona a un racconto corale. Gipi e i suoi amici. Gipi e quello che c’è fuori. Gipi e le donne. Gipi (e quelli come Gipi) e i loro fan.
Il ragazzo del titolo è uno che, vent’anni fa, mandò una lettera a vari fumettisti, promettendo gratitudine ed eterno riconoscimento per un disegno, “perché sei il mio preferito (o preferita, a seconda dei casi)”. Ne nasce una ricerca infinita, un flusso di coscienza fatto di immagini e di parole, schizofrenico e sboccato, con una sua dimensione precisa, in cui Gipi e i suoi amici (Gero Arnone, Davide Barbafiera, Francesco Daniele) provano a mettere insieme i pezzi di una storia assurda, tragicomica e imprevedibile.
Altra cosa che non manca in questo film – e che non è mai mancata in tutte le opere di Gipi – è l’autoironia. Gipi si prende in giro per tutto il tempo. E prende in giro anche il resto, la società, il bigottismo crescente, il politicamente corretto, l’arrivismo a tutti i costi, e la difficoltà che c’è, che abbiamo, nel parlare gli uni con gli altri (due sequenze in particolare, in questo senso: quella con Domenico Procacci, produttore del film, all’inizio; e quella con un suo vecchio amico dell’infanzia, ora – dice lui – diventato donna).
La moglie di Gipi, Chiara Palmieri, gli fa da coscienza; Jasmine Trinca e Kasia Smutniak sono i volti che una mega-produzione sceglie per affiancarlo nella resa del film (perché alla fine Gipi si svende, e svende anche la sua idea e i suoi amici). Mauro Uzzeo, sceneggiatore, scrittore, pure lui regista, fa un cameo vestito da indovina (“siete i primi a dirmi che sono un uomo questa settimana”). Ogni cosa ha tantissimi piani di lettura. Ogni scena può essere vista così com’è, oppure al contrario, da un’altra angolazione, opposta e uguale a sé stessa e con un significato totalmente diverso.
Il ragazzo più felice del mondo, alla fine, non si sa chi è. Potrebbe essere quello della lettera, il fan dei fumettisti; o potrebbe essere lo stesso Gipi, che nel fare quello che fa – cercare storie, farsi tormentare da esse – è contento. “Conta il viaggio, non la meta”, diceva qualcuno. E qui conta anche il ritmo, la musicalità del racconto, come tutto trovi il suo posto: e non importa quanto in là, quanto lontano, Gipi si spinga.
Questa è la sua storia e di tutti quelli come lui: ossessionati dall’idea di raccontare, così impegnati nel cercare qualcosa da dire da perdersi tutto il resto; è la storia di una lettera scritta a mano e della passione di chi l’ha scritta; di un post su Facebook che ha più visibilità e forse meno valore; di un viaggio e di alcuni viaggiatori; è la storia di come si fa un film, di come si propone, di cosa vuol dire girarlo; è la storia di un ragazzo felice, forse non così felice, che è come la valigetta di Pulp Fiction: sappiamo che esiste perché tutti la vogliono, ma non la vediamo mai, mai veramente, e alla fine, ecco, ci facciamo bastare l’idea che un ragazzo così, felice e tutto, ci sia.