“Sulla mia pelle” è un chiodo
Sulla mia pelle, su Netflix e al cinema con Lucky Red il 12 settembre, è un film straziante. Ti colpisce alla bocca dello stomaco con ogni immagine e ogni parola, con ogni inquadratura degli occhi pesti di Alessandro Borghi, con la musica, con i silenzi, con tutto quello che c’è attorno a Stefano Cucchi.
È un film preciso, chirurgico, senza nessun eccesso. È un chiodo, non una lama. E ogni scena è costruita per mandare a fondo, quel chiodo. Per insistere, per battere, per affermare una verità: un ragazzo è morto e ancora non si sa perché. È stato arrestato, gli è stato impedito di vedere il suo avvocato, è stato spezzato, martoriato e abbandonato. Alla sua famiglia, che pure lo cercava, è stato impedito di vederlo. E tutti, anche se sapevano, hanno taciuto.
La regia di Alessio Cremonini non insiste, non indaga, non è morbosa; mostra quello che c’è da vedere – mostra il necessario, il nocciolo, la verità visiva. Mostra il fisico di Alessandro Borghi, che interpreta Stefano Cucchi, e ne fa un Cristo senza croce, abbandonato su un lettino, con ancora il maglione addosso e la pelle tirata sul viso smunto.
La scrittura è telegrafica, mirata, puntuale. Non ci sono grandi dialoghi, né monologhi celebrativi o edificanti. Ci sono battute secche, evocative, oneste. Questo non è un romanzo; è un film di puro realismo, di ricostruzione quasi documentaristica, che non prende nessuna parte. Seguiamo Cucchi dal suo arresto alla sua morte, e impariamo a conoscerlo attraverso le frasi che sbocconcella, che mormora, che cerca di tirare in faccia ai carabinieri. Sono stati loro, dice alla fine. Ma non vorrà mai ripeterlo davanti a testimoni, farlo mettere per iscritto dai medici, perché ha paura.
È in un mondo che non conosce – il carcere – e ha paura. E noi questa paura gliela leggiamo in faccia, gliela sentiamo nella voce, la riconosciamo nei gesti, in come ogni tanto lascia il posto alla rabbia e all’ansia, nella soggezione che Cucchi prova: meglio non dire niente, meglio tacere; andrà tutto bene, andrà tutto come deve.
Attorno a Borghi, si muovono pochi attori: Jasmine Trinca, che interpreta la sorella di Stefano, Ilaria; Max Tortora che interpreta il papà e Milvia Marigliano che interpreta la mamma. Ognuno, a modo suo, racconta qualcosa di Stefano: il lavoro che faceva, l’atteggiamento che aveva, la sua storia, il suo passato, i suoi problemi. C’è lo Stefano in carcere e c’è lo Stefano a casa, in un’altra gabbia, fatta di aspettative, di pensieri inespressi, di errori imperdonabili.
Era un uomo, non un santo – altra verità che il film racconta. Un uomo fallibile, un ragazzo, uno con le sue passioni, le sue amicizie, la sua vita. E i suoi guai. Soprattutto, forse, quelli. E improvvisamente viene schiacciato. Ogni cosa – le promesse, le speranze, un’altra vita – gli crolla addosso.
Sulla mia pelle, dice il titolo del film. Perché è sulla pelle di Cucchi che si vede la sua storia, che si raggruma come sangue, che si allarga come un livido. Alessandro Borghi non esiste: non c’è più la sua faccia, non c’è più la sua voce; non ci sono più i suoi capelli. È magro, magrissimo. Un chiodo. Quello che il film continua a battere con forza. Il racconto è ai minimi termini: è essenziale, minimale, ripulito di qualunque sbavatura. Si lavora per immagini. Ognuna incredibile e dolorosa. La pornografia della violenza viene evitata. Resta il dolore, quello fisico, e resta l’angoscia. Cremonini intuisce che c’è più forza in quello che s’immagina piuttosto che in quello che si potrebbe far vedere, e allora decide di evitare. Quando la porta si chiude dietro Stefano, non sentiamo niente. Nemmeno un rumore. Un tonfo. Una parola. C’è solo silenzio. Pelle e lividi, questo film. La storia di un ragazzo che diventa, alla fine, la sindone di una verità taciuta.