La piccola lezione de “L’ora più buia” di Joe Wright
Winston Churchill è odiato, temuto e isolato. Come il Regno Unito, in un certo senso. Il suo partito non lo vuole. L’opposizione, forse per un malcelato senso di autodistruzione, non vede altro papabile per guidare un governo di larghe intese. E allora il Re, il balbuziente Bertie, cede. Lo nomina primo Ministro ed è qui, epica del romanticismo, pornografia della speranza, che inizia il film di Joe Wright, Darkest Hour (in Italia tradotto come L’ora più buia).
Il protagonista è un bravissimo Gary Oldman, che riesce a concentrare su di sé, in qualunque istante, qualunque momento, anche quando non è in scena, l’attenzione dello spettatore – finisci per chiederti dove sia, quando non lo vedi, e che cosa possa mai stare facendo. Perché è a Churchill che pensi, non all’attore che lo interpreta.
Il grosso del lavoro Oldman lo fa con la voce e con il fisico. La camminata, il modo di parlare, l’accento, le consonanti che mangiano le consonanti; le vocali che s’allungano, il sigaro sempre stretto tra le labbra, il fumo, la tosse, il cibo. Uomo di vizi, Churchill. Un perdente, un “loser”, osteggiato e condannato dalla sua vanagloria, innamorato di un’idea vecchia, romantica, di guerra e di battaglia, dove l’uomo affronta l’uomo e alla fine vince il migliore.
In Darkest Hour gli spazi sono sempre gli stessi, claustrofobici, intonacati di scuro; la geografia dei luoghi è abbastanza familiare e le uniche eccezioni alla monotonia di sale, sale riunioni e cunicoli sotto terra, sono la metropolitana londinese, dove Wright ambienta una delle scene più belle e commoventi, e l’hangar di un aeroporto immerso nella nebbia.
In un certo senso Darkest Hour è un film quasi teatrale, limitato, piccolo, circondato da una serie di confini invisibili allo spettatore, ma chiarissimi nella mente del regista, entro cui creare – pardon, ricreare – una realtà che è già stata. E come in quasi tutti i grandi film, qui si pecca di romanticismo e di romanticherie; non c’è il Churchill vincitore, c’è il Churchill perdente, sconfitto, schiacciato dal peso delle responsabilità e dall’ansia, che fa il segno sbagliato, con le due dita, che piagnucola in metropolitana, che si lascia coccolare dai suoi inglesi e che diventa leone solo per necessità, per spirito di sopravvivenza. E che finisce per incarnare, eccola l’altra grande magia del film di Wright, non solo la speranza di un giorno migliore, ma pure l’orgoglio di essere se stessi, fino alla fine, e la fatalità, talvolta decisiva, del destino.
Non eletto, non voluto, l’uomo forse più odiato d’Inghilterra – come si ripete un paio di volte, durante il film – eppure Churchill ha rappresentato la salvezza per il suo paese. Perché non si è voluto arrendere, non ha ceduto, e all’imbianchino maledetto (Hitler, cioè) non ha consegnato le chiavi di Londra. Nelle sue parole e nei suoi discorsi, si ricorrono sofferenza, lacrime e sudore; non c’è spazio per un futuro luminoso, ma solo per un presente sofferto, combattuto, strappato con le unghie e con i denti ai propri nemici. C’è l’evocazione del male, come in una grande ballata medievale, e c’è l’idea, così oltre tempo, che stia agli inglesi, ai sudditi di Sua Maestà che non scappa in Canada ma che resiste insieme ai suoi in Patria, quella d’armarsi e di combattere, sulle spiagge, le colline, nei porti, strada per strada, come i difensori di un valore universale di umanità.
Nella camminata spedita di Oldman, nelle mani sempre intrecciate dietro la schiena, nella fronte aggrottata, nei modi burberi ma teneri, nella voce rombante – da attore – rinasce uno degli ultimi personaggi della storia moderna che hanno saputo crearsi una mitologia intorno a sé. E una mitologia da perdenti, da sconfitti, da odiati. Churchill: non il Ministro che il Regno Unito si meritava, ma quello, forse, di cui aveva bisogno in quel preciso momento, per ricordarsi il proprio posto, le proprie origini e qual era la posta in palio.
Oltre la leggenda, le chiacchiere e oltre qualunque cosa in questi anni si sia detto del Winston politico (quello scrittore, invece, gode sempre di un’eccezionale fama), Wright riesce a insinuare, poco, piano, quasi sottovoce, un concetto che, per quanto inedito di questi tempi, nel cinema come nella vita vera, riesce a essere rivoluzionario: la politica che si fa ispiratrice, che guida, non schiaccia, che suggerisce, non ordina; e che a una sequela infinita di norme, di “non si può”, di “non credo”, sostituisce il potere meraviglioso dei vari “speriamo”, “crediamoci”, “possiamo essere migliori”. Che nostalgia, non è vero?