Il primo ricordo di Pino Daniele
Il primo e l’ultimo Pino Daniele, quello napoletano e quello meno napoletano, quello che diceva Terra Mia e quell’altro che se ne è andato a Roma perché oh, i napoletani a una certa stancano. Sono troppo. Esagerano.
Tutte queste cose quando sei bambino non le pensi. E sicuramente non le pensavo io quando ho sentito per la prima volta Pino Daniele. Non so quanti anni avevo. È uno di quei ricordi che quando li racconto la gente mi guarda strano. “Che?”, sembrano dirmi “Ti ricordi anche quando sei nato, magari?” Ma la memoria funziona così: è questione di chimica. E in certi momenti fa reazione, in certi altri no. Si vede che quel giorno, quello lì, era in vena di reazioni e contro-reazioni, e si vede pure che essere nato a Napoli ha avuto i suoi effetti.
Ricordo il cruscotto della 126 scassatissima di mio padre, ricordo le mie scarpe, due nike nuove, le mie prime nike, e ricordo anche che tempo faceva fuori dai finestrini appannati: freddo, la pioggia che cadeva quasi a secchiate e il cielo nero nero, illuminato a tratti dai lampi. Ricordo pure che stavo andando a scuola, che era mattina presto e che mi divertivo ad alitare contro il vetro del finestrino e a scriverci sopra (pure se mio padre, incazzato nero, mi diceva di non farlo, che restavano i segni dopo).
La stazione era Radio Italia. Classicone da inizio anno, di quelli che mettono d’accordo tutti (e i primi da mettere d’accordo sono i napoletani). La canzone era Napule è. Non ricordo l’anno – ecco, cose come questa dovrebbero essere più facili da ricordare e invece no. Qualche anno dopo quella stessa canzone l’avrei cantata in una recita scolastica, malinconico e consapevole solo a metà di quello che stavo dicendo (la gente che s’emozionava, no, non la capivo). Comunque a un certo punto era partita la musica e poi era entrata la voce di Pino Daniele e io m’ero fermato. Pure mio padre si era fermato. Cioè, ha continuato a guidare: eravamo in salita, tra la Sanità e Capodimonte. Ma si è zittito. Ha guardato nello specchietto retrovisore verso di me – anche questo me lo ricordo bene: e ricordo bene i suoi occhi, la sua espressione, quella rughetta che solcava la fronte, come a dire “se non ti piace, oh, ti faccio scendere dalla macchina”.
Io mi limitavo ad ascoltare. E per un bambino piccolo “limitarsi ad ascoltare” è una gran cosa. In parte perché sta fermo e in parte perché presta attenzione – ma attenzione vera – a una cosa che non conosce. Ascoltavo e non capivo. Mi piaceva, credo, il suono della voce di Pino Daniele, mi piacevano pure gli strumenti. E mi piaceva come diceva Napule è (per un periodo, presi a chiamarla così Napoli: Napulè, tutto attaccato, accento finale). E intanto, lentamente, tornavo a guardarmi attorno.
Tornavo a guardare fuori dal finestrino, nel grigiore di una giornata piovosa. La gente, le facce lunghe, gli ombrelli. Ne ricordo uno in particolare: con spider-man sopra, di un bambino della mia stessa età. Lui fuori al freddo, io dentro alla 126 scassatissima di mio padre. Lui ad ascoltare il rumore della pioggia, io la canzone di Pinuccio (papà lo chiamava così e così lo chiamavo io, quei primi tempi). Il freddo che ti si appiccica addosso e che ti fa respirare condensa bianca: ricordo pure questo. Poi i palazzoni scassati in fondo alla strada, la piazza della Sanità che non avevano ancora rifatto e le bancarelle che riempivano ogni angolo, anche sotto l’acqua battente anche a quell’ora della mattina – se andavo a scuola, saranno state più o meno le sette e mezza. E quindi Pino Daniele è diventato l’altra faccia di Napoli per il me bambino. Anzi, era l’unica faccia. Perché a quell’età lì mica ti chiedi che cos’è – chi è – Napoli. Ti accorgi e non accorgi che vivi in una città diversa da Milano o Roma; ti accordi e non che Pino Daniele voleva dire una cosa – la carta sporca, la voce ‘re criaturi – e ti accorgi e non che quello – tu in macchina con tuo padre, stretto nel piumino caldo, il naso freddo e gli occhi ancora sporchi di sonno – sarà il tuo primo vero ricordo di una persona che non hai mai conosciuto ma che sì, ti farà compagnia per il resto della tua vita.