Senza audience c’è comunque vita
L’altro giorno leggevo questo articolo di Carlo Freccero su Rolling Stone Italia (è uscito in edicola, con il nuovo numero; e ora è disponibile anche online, qui). Si parla di televisione, di auditel e di televisione commerciale, votata interamente a “dare al pubblico quello che il pubblico vuole”. La considerazione finale, mi è parso di capire, è che non c’è una tv più o meno trash, kitch o inguardabile; tutta la tv, in Italia, ha un suo perché. E quel perché è, senza nemmeno dirlo, l’auditel, lo share, i numeri. I prodotti si confezionano, insomma, ad hoc: se c’è pubblico, si fanno; se la percentuale sale, si continua. Altrimenti niente, fine, nada: si passa ad altro.
Questo modo di pensarla, mi sono detto, non è nuovo ma nemmeno vecchio; è ancora attuale. La tv, oggi, si “costruisce” ancora così. E chi sono poi io per dire a Freccero, uno che la televisione l’ha fatta, cosa sia giusto oppure no. Però. Mi sono fermato un attimo, e mi sono guardato attorno: mercato italiano a parte, davvero tutti continuano a fare così? Cioè, ad affidarsi (quasi) completamente all’auditel? Voglio dire, e il compito educativo (non solo in senso letterale, ma pure come programmazione, a lungo termine) del piccolo schermo dove va a finire? Dove vanno a finire, soprattutto, i tanti esempi – tutti positivi – che ci vengono dall’estero? Dalla gestione della televisione. L’auditel, cioè gli ascolti, cioè come vendere, comprare, offrire gli spazi pubblicitari, restano un dato importante: se c’è audience, è ovvio che quel prodotto ha fortuna e piace. Ma ci sono anche prodotti – e penso a programmi e a serie tv – che per i primi tempi reggono tutto sull’idea, la sensazione, di chi produce, scrive o dirige. Faccio un esempio: se la AMC avesse tenuto conto solo dell’auditel, Breaking Bad non avrebbe avuto più di due stagioni. Se non ci fosse stato il coraggio di osare dei produttori, forse oggi non avremmo una delle serie tv più importanti – per la storia televisiva, certo; ma pure per lo sviluppo della serialità come nuova frontiera dell’entertainment – degli ultimi anni. La stessa cosa potremmo dirla de I Soprano, prodotto di nicchia di una tv di nicchia come la HBO.
Certo, lo so: sono due cose diverse. Freccero parla di televisione commerciale, quindi di televisione di massa, del grande pubblico; quella che intrattiene l’italiano medio (e non c’è niente di sbagliato, in questo). Prendiamo, allora, un altro esempio: prendiamo Jimmy Kimmel e il suo programma, un late show sui generis che riprende dalla tradizione lettermaniana solo in parte e che per il resto riscrive il format; va in onda sulla ABC, canale – ecco – commerciale e di massa (nel 2008, è stato il più seguito dal pubblico americano). E funziona. Altro esempio: rete USA, serie tv – recente, recentissima – di Mr. Robot. Anche qui siamo contro la regola, anche qui, visto il canale e visto il pubblico medio, non c’erano le basi per un esperimento simile. Però è stato fatto ed è – guardatevi attorno – andato benissimo.
Questo per dire cosa? Che la tv (anche quella commerciale) ha bisogno anche di altri punti di riferimenti che non siano l’auditel. Che, forse, mettere insieme Sky, Rai e Mediaset (benché la prima abbia più investitori e produttori coraggiosi) non è così sbagliato. C’è un modello, a cui adattarsi. Un modello nuovo, più giovane, sicuramente più azzardato. Ma un modello che, comunque, non nega la natura pionieristica del piccolo schermo: di provare, azzardare e riscrivere. Che non si ferma al già visto e rivisto, ai numeri che ci dicono che all’italiano medio piacciono le fiction di suore e preti, e le arene pubbliche del dolore. Il punto, forse, è che i tempi sono cambiati. E che la musica su cui quelli ritenuti pazzi, come nell’aforisma di Nietzsche che riporta pure Freccero nel suo pezzo, è cambiata. Silenziosa, dai più impossibile anche solo da percepire. E ora anche diversa. Forse, finalmente, è arrivato il momento di tentare: e non saremmo né i primi né gli ultimi a farlo. Saremo solo i prossimi. E potremo fallire, certo, come anche riuscire. Senza auditel non si vive, no. Ma non si muore nemmeno.