È morto Luca De Filippo, il “carissimo amico” di Eduardo
Prendersi la confidenza, a Napoli, significa diventare invadenti, quasi maleducati; dire e fare cose che non abbiamo il diritto né di dire, né di fare. Chiamare qualcuno per nome, per esempio, è “prendersi la confidenza”. Ma quando quel qualcuno è un qualcuno conosciuto, famoso per qualcosa, chiamarlo per nome è un dovere: perché riconosce il suo stato, quello che ha fatto, chi è diventato. E quindi è un dovere per i napoletani chiamare Luca De Filippo solo Luca. Così come è un dovere chiamare Eduardo De Filippo Eduardo, Massimo Troisi solo Massimo, Antonio De Curtis solo Totò. E basta questo per capire chi fosse, veramente, Luca De Filippo. Per dire cosa rappresentasse.
Era nato a Roma. Ma era pure napoletano, nato e cresciuto sui palchi, dietro le quinte, vicino al padre mentre scriveva, recitava, andava in tournée per teatri. Ricordarlo oggi solo come “il figlio del grande Eduardo” è una carognata. Un’ingiustizia. Mancanza non solo di tatto ma pure di conoscenza. Perché per Luca la memoria di suo padre non è mai stato qualcosa con cui fare i conti e confrontarsi; era, invece, un punto da cui partire.
Ha portato in giro per teatri le commedie di Eduardo e di Scarpetta, ha interpretato tanti grandi autori, ed è stato sempre sé stesso; ha lasciato che anche altri potessero rappresentare le opere di suo padre, senza intervenire, senza mai dire la sua. Era un capocomico, un attore dialettale. Con gli anni, si era appesantito, era cambiato; il fisico asciutto di quando interpretava Tommasino accanto ad Eduardo era scomparso, leggermente piegato alle spalle dall’età. Il viso si era incavato. Erano usciti fuori gli zigomi, e la fronte, nella stempiatura dei capelli, si era fatta alta. Quando parlava, parlava con la voce di Eduardo.
L’ultima volta che l’ho visto, durante la prima de La Grande Magia al teatro San Ferdinando di Napoli, sono rimasto sinceramente stupito: perché quello che vedevo sul palco, che si muoveva, che sgranava gli occhi, che apriva la bocca e muoveva le mani, era Luca ed era anche, allo stesso tempo, Eduardo. La dignità dell’attore, del regista e del drammaturgo. Gli occhi che si chiudono, le pause che vengono recitate; il pubblico che sta lì, il fiato sospeso, rapito.
Luca esordì giovanissimo, a sette anni, nel ruolo di Peppeniello in Miseria e Nobilità. Quando venerdì s’è diffusa la notizia della sua morte, sono andato subito a recuperare il video, un bianco e nero tremolante e una pessima messa a fuoco in cui si riconosce Eduardo solo per la voce – ripete a intervalli quasi regolari “è vero” – e per certi movimenti che fa con la testa, le mani e le spalle.
«Luca stasera farà Peppeniello in Miseria e Nobiltà», dice De Filippo; accanto a lui c’è un bambino di sette anni che ha perso tutti i denti. «Avrà pure lui la stessa pedana di lancio», perché era una tradizione iniziare così, con Miseria e Nobilità e il ruolo che Scarpetta scrisse per uno dei suoi figli, Vincenzo. «È preparato ma non è un ragazzo prodigio. È un ragazzo come tutti quanti gli altri. Però ha vissuto con il suo papà, dietro le quinte, ha vissuto accanto a me quando scrivo le commedie, lui mi fa compagnia. Ed è stato veramente un dono che io ho avuto dal Signore. Perché veramente è un mio carissimo amico, questo qua». Un buffetto sulla testa e la platea dell’Odeon di Milano, anno 1955, applaude.
Si ripetono le opere, gli impegni; si ripetono chi era, con chi era sposato, figlio di quale scuola fosse. E quello che dovrebbe essere un momento per omaggiare, diventa un momento come un altro: grigio, didascalico, opaco. Luca era uno dei grandi del teatro non solo napoletano, ma italiano. Era un gigante, come suo padre. Dava voce a quella tradizione che ci è tanto cara, a quelle opere che ci hanno tenuto e ci tengono compagnia, riproposte a intervalli regolari in televisione. Era uno che, per Napoli, si spendeva e si impegnava. Faceva di tutto per aiutarla. Ed è così che Luca andrebbe ricordato: per chi era, per quello che faceva; non per chi di era il figlio.