La Roma di Stefano Sollima

Uscito al cinema giovedì scorso, Suburra non è una riproposizione in chiave cinematografica dell’attualità. È molto altro

Non ci sono né bene né male nella Roma di Stefano Sollima. Non ci sono né buoni, né cattivi – si vive nel “mondo di mezzo”, quello di cui, qualche mese fa, si parlava nelle intercettazioni di Mafia Capitale. Un mondo grigio, sospeso, dove non esistono grazia o giustizia, dove la vendetta è un valore, la politica è asservita e un uomo – stanco, pesante e occhialuto – tira i fili di un enorme, macchinoso progetto – «mio padre c’aveva paura di lui perché sa un sacco di cose».

È una mitologia filmica, la prima che resiste e sussiste; Sollima non si limita, banalmente, ad attingere all’attualità. In un certo senso la riscrive. Siamo nel novembre del 2011 e l’Apocalisse, come recita la scritta in sovrimpressione, si scatenerà tra sette giorni. Padri che tradiscono figli, figli che vogliono dimenticare i padri; e l’amore che resiste solo tra un boss e una ragazza, fatto di violenze e misfatti, di torture e sparatorie. Contano solo gli interessi: il progetto di una Ostia come Las Vegas, un parlamento asservito e complice, incatenato al potere silenzioso delle mafie. Gli zingari che vogliono diventare romani ma che resteranno sempre «rom di merda».

Ci vedi i Carminati, gli intrallazzi attuali; ci vedi la politica del malaffare e i ciceroni della corruzione, in Suburra. Ma non è questo il film di Sollima; va invece visto e interpretato in un altro modo: non come una celebrazione del male, ma come una presa di coscienza – esagerata e talvolta estrema – dell’animo umano. Action mescolato al crime, con sfumature drammatiche. Il verosimile – di cui ha parlato pure Sorrentino al Festival di Roma qualche giorno fa – e non il vero.

Non ci sono affetto o amicizia che tengano nella Roma del regista di Gomorra. Ci sono solo dolore e paura, un binomio incandescente che costringe chiunque – il politico, il PR, il boss, l’uomo della strada – a soccombere. A piegarsi e a pregare – e lo fa anche il papa, pronto a dimettersi. Non è uno studio morettiano della cronaca: non c’è una previsione del futuro. Sollima prende spunto da un libro Suburra di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, e fa quello che, in questi anni, ha imparato a fare: il regista. Con una fotografia che mette a fuoco pochi passaggi, un’espressione o uno sguardo, il personaggio che parla o che conquista la scena dove tu, spettatore, dovresti guardare.

C’è chi in questo film ci vede Gomorra; chi, invece, Romanzo Criminale. Nessuno però ci vede ACAB, perché non c’è polizia, né quella buona né quella cattiva che frantuma le ossa a manganellate. Ma Suburra è l’ennesimo tassello di una carriera mosaica in cui il regista dimostra la propria capacità di mettere a nudo l’essere umano e di saperlo raccontare nella sua brutalità. Non è il gangster movie alla Guy Ritchie; non è l’inno del crimine e della letteratura di genere. È una storia: una tremenda, brutta e grigia. Ogni personaggio rappresenta una parte del Potere (che va immaginato come il Leviatano di Hobbes, mille facce, mille mani, immenso): ci sono il parlamentare e la escort, l’ultimo reggente della malavita romana e il capofamiglia della criminalità violenta dei picchiatori.

Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi (co-protagonista di Non essere cattivo di Claudio Caligari), Greta Scarano e Giulia Elettra Gorietti: volti, facce, nomi; sono l’altra parte di questo racconto, sono gli attori e le attrici che cambiano, che si modificano e che si trasformano – ed è merito della regia, nuovamente, se ci riescono. Amendola, in particolare, è irriconoscibile. E non perché sia diverso fisicamente, ma per la forza del suo sguardo, la fermezza delle sue parole, la semplicità dell’uomo che interpreta. Il suo personaggio, Samurai, è l’apice del racconto: è il punto di contatto tra la buona società e la politica, tra le camorre – e le gomorre – e la finanza.
In Suburra la giustizia è «una tossica che si vuole vendicare», con il viso e gli occhi di Greta Scarano, ed è il debole che, alla fine, reagisce alle prepotenze del più forte – il naso rotto, sanguinante, di Elio Germano. Il mondo di Suburra è un mondo in cui il Destino, alla fine, prevale. E non c’è uomo, Samurai o Potere che gli possano resistere. È l’apocalisse del male, non del bene (e anche per questo una distinzione netta tra i due valori è assente).

Claudio Amendola in una scena del film
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Gianmaria Tammaro

Napoletano convinto dal '91. Scrive di cinema, serie tv e fumetti. Gli piace Bill Murray. Il suo film preferito è Ricomincio da tre.