Il late show in Italia
Non c’è una ricetta precisa del Late Show americano, ovvero non c’è un modo univoco, assoluto, di intenderlo. Alcune cose – la conduzione di uno stand-up comedian, l’ora di messa in onda, il taglio editoriale – tendono ad assomigliarsi, ma con il passaggio da un paese all’altro e in particolare, con il passaggio dagli Stati Uniti all’Italia, il Late Show è diventato un format lento, obsoleto, che non riesce – nemmeno volendo – a ottenere gli stessi successi che ottiene, invece, nel nord America.
Il problema è che qui in Italia non abbiamo mai – ci ha provato solo Luttazzi, tempo fa e a modo suo – tenuto conto dell’inscindibilità tra le due cose, tra stand-up comedy e Late Show; non abbiamo mai immaginato un programma in cui il conduttore non solo intervisti i propri ospiti, ma tenga anche un monologo iniziale.
Luttazzi, dicevo, ha provato a innestare nella televisione italiana una radice molto forte di comicità inglese: talvolta ha letteralmente fotocopiato battute e sketch. Ma non ha funzionato. Nel cortocircuito mediatico, Luttazzi è stato masticato, inghiottito e poi risputato.
Oggi ci sono altri esempi: c’è Cattelan su Sky, che ha ripreso il modello di Jimmy Fallon, giochi con gli ospiti e band in studio; oppure Saverio Raimondo, che più che ispirarsi al Late Show si è ispirato al Daily News di Stephen Colbert. Quindi c’è chi, come Anna Trieste, stand-up comedian, giornalista e laureata in giurisprudenza, ha provato a riproporre il Late Show dal vivo: da Letterman, telecamere e studio in un locale nella zona alta di Napoli, tavolini e sedie, una scrivania e ospiti di eccezione. E lo ha fatto dimostrando che ridere, spesso, è il miglior modo, se non addirittura l’unico, per informare – per avvicinare lo spettatore. Non è un caso che il primo ospite dell’AfterWork di Anna Trieste sia stato Luigi De Magistris, sindaco di Napoli ed ex-magistrato.
Da dove nasce – ho chiesto ad Anna Trieste – l’idea di provare a portare un format come quello del Late Show a Napoli, per di più dal vivo?
«Questo pallino di fare delle cose dal vivo, a Napoli, che fossero diverse rispetto a quella che è la solita comicità napoletana, quella che viene anche accettata a livello nazionale, il cabarettista puro come Siani o Peppe Jodice, ce l’ho sempre avuta.
Quando sono tornata in pianta stabile qui in città, un po’ di locali mi avevano fatto già da tempo delle proposte. Poi Michele De Finis, degli Epo, mi ha detto del Cellar [il locale dove è andato in scena l’AfterWork, nda]. Ci abbiamo pensato quest’estate e l’idea che è uscita fuori è stata quella di fare qualcosa dal vivo. Abbiamo pensato a Letterman e al suo Late Show».
Che è, a modo suo, una cosa pericolosa. Vedi tutti i falliti tentativi di copiarlo/riprodurlo in televisione.
«Imitare Letterman o ispirarsi totalmente a lui sarebbe stato inutile oltre che molto pericoloso, è vero. Poteva però aiutare le persone a capire quale fosse il nostro obiettivo. Io mi sono limitata a “parodiarlo”, mantenendo il mio stile. Di interviste così, come quella a De Magistris, ne avevo già fatte a personaggi famosi. Quando, per esempio, ho collaborato con Fanpage. Sicuramente c’è un substrato giornalistico, perché le domande che ho fatto al sindaco erano di attualità. Ma il mio obiettivo non era fare lo scoop. Era fare informazione e allo stesso tempo intrattenere: fare divertire la gente che era venuta».
A proposito dell’informazione che si fa intrattenendo: si dovrebbe riflettere su quanto questo approccio alle cose, spesso, sia più funzionale del vecchio sistema. Semplificare il linguaggio per avvicinarsi più possibile a chi legge e/o ascolta.
«Su questa cosa sono così d’accordo che sono pronta a prendermi anche tutti i rischi. Quando decido di comunicare in un certo modo e decido di usare un certo registro, lo faccio consapevole che su dieci persone due penseranno che sono una vrenzola e otto coglieranno il messaggio. Non faranno caso al registro, insomma. Non mi importa la deminutio nei miei confronti. Quello che mi importa è di raggiungere il pubblico. Di informarlo».
Viene da chiedersi, a questo punto, se sia la soluzione a tutti i nostri problemi: quella di una formula, di un registro, diverso, più semplice.
«Non so se sia quello che serve, ti posso dire però che è quello che preferisco. Ho scritto tanto di diritto e di politica, ho avuto anche modo di imparare il politichese, scrivendo discorsi per politici; non so quale sia il linguaggio che serve di più, perché dipende anche dalle occasioni. Ma io come Anna preferisco utilizzare quello che mi identifica, che nella pratica è sicuramente il modo più efficace».