L’inglese, le università e le case editrici
Da un po’ di tempo (a volte da tanto), le università italiane – almeno alcune – hanno deciso di offrire non solo degli insegnamenti specifici, o dei Master, ma degli interi corsi di laurea in lingua inglese. E pare che abbiano un certo successo di iscritti. Questo consente di attrarre un certo numero di iscritti – e il numero dipende molto dalle discipline e dalle prospettive offerte – di lingua non italiana.
Non sfugge a nessuno (spero) l’importanza strategica di avere studenti che diventeranno ingegneri, architetti, economisti, o altro, che, provengono da aree importanti, come l’Europa orientale, o l’Asia, o l’Africa, che formati in Italia manterranno con il nostro Paese delle relazioni strette, un legame culturale con ricadute economiche potenziali.
I saperi tecnici e scientifici hanno già una tradizione di questo tipo, mentre le discipline umanistiche stanno cominciando a ragionare su un’offerta formativa, utile e razionale, di questo tipo.
Quindi si tratta di una strada che sarà sempre di più percorsa. Non è una strada semplice, anche banalmente per il fatto che insegnare in inglese presuppone che le università mettano a disposizione di docenti e studenti degli strumenti per migliorare il proprio inglese, per preparare i propri materiali, per muoversi in un universo linguistico che è comunque diverso; e non sempre è così.
Ma c’è un problema importante – parlo soprattutto per le discipline umanistiche -, che andrà affrontato, anche con le case editrici (so che alcune ci stanno già ragionando), e cioè che se questi esperimenti continueranno e funzioneranno, ci sarà bisogno di testi di autori italiani scritti (in realtà tradotti, è ovvio, perché nessuno può pretendere anche che, come professori, ci mettiamo a scrivere libri in inglese, o francese, o tedesco…) in inglese.
Altrimenti dovremo sempre scegliere dei manuali, o dei testi, o degli approfondimenti di autori anglosassoni. Attenzione, non c’è nessun sovranismo (e lo stesso discorso potrebbero farlo francesi e tedeschi), ma è vero che su molti temi l’impostazione generale e particolare delle scuole e delle tradizioni anglosassoni in campo umanistico in senso generale è molto diversa da quella italiana e europea continentale.
In sostanza ci troveremmo sempre a dover mediare tra il nostro proprio approccio e quello in lingua inglese per il semplice e banale fatto tecnico che dobbiamo dare da studiare dei testi in inglese, mentre i nostri sono naturalmente in italiano. E questo è anche un impoverimento culturale. È una riflessione che, con le università e le case editrici, dovremmo fare.
D’altra parte – e questo pure può essere importante – ciò potrebbe aprire un mercato più ampio al nostro modo di ragionare, alla nostra impostazione (che a volte è migliore, e che comunque è utile che entri in un circuito globale più ampio dell’attuale) che vengono spesso ignorati, o depotenziati, per le barriere linguistiche altrui. Infatti noi e i nostri studenti – anche quelli dei corsi in italiano – siamo in grado di leggere l’inglese, ma gli anglosassoni non sono quasi mai in grado di leggere l’italiano e quindi spesso non integrano i nostri risultati alle loro ricerche o lo fanno in modo convenzionale – parlo sempre di humanities e affini – o alla loro visione delle cose (e della didattica). Ragioniamoci.