Il generale Lee e il generale Cadorna
Questa faccenda americana del buttar giù le statue del generale Lee & c. è interessante e complicata, perché interessante e complicato è proprio il senso dell’erigere le statue (prima di buttarle giù).
Sopra il portone monumentale d’ingresso dell’università in cui insegno, Strasburgo, ci sono due statue, una rappresenta Strasburgo, l’altra si chiama “Germania”. Tra le due statue la scritta, in latino, “alla patria e alle lettere”. Sulla patria presunta abbiamo già detto, per le lettere basta guardare venti metri più in là, dove c’è un’altra statua, quella di Goethe, l’autore tedesco per eccellenza.
Insomma bastano tre statue e una scritta per definire un universo ideologico e politico, che nel caso specifico è quello degli anni ’80 dell’Ottocento, dopo la conquista tedesca dell’Alsazia del 1871 e il crollo dell’impero francese. La statua “Germania”, sparita dopo la prima guerra mondiale (guarda caso), è stata ricostruita nel 2013, proprio con una delle motivazioni della conservazione delle statue che sentiamo in questi giorni (“è la nostra storia”).
Ma erigere una statua ha sempre, o quasi, una motivazione di ordine ideologico (almeno nel senso neutro e largo del termine).
Le statue di Dante che vediamo in quasi tutte le città italiane sono state erette a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento, con una motivazione ideale e ideologica chiara: abbiamo finalmente uno stato, perché da sempre abbiamo una lingua (Storia della letteratura italiana di De Sanctis, e il titolo è banale ora, ma non lo era allora, nel 1871, è in questo senso un classico della storiografia, ma è anche un atto politico).
La statua di Giordano Bruno in Campo dei fiori fu anche una sfida anticlericale nella Roma diventata italiana e non più papale da poco, una sfida che i papi vissero come una spina nel fianco per molto tempo. Garibaldi non si tocca, ma a Bergamo, e temo in altre città, nel basamento fu scritto “Al duce dei Mille”, con ovvio rimando al presente di un’altra epoca. E che meraviglia le statue borboniche che ancora si trovano nei territori del Regno delle due Sicilie, o che sono state ricollocate (per esempio a Catania), o gli otto re di tutte le dinastie di Piazza del Plebiscito (nome anche questo non neutro) a Napoli, che convergono verso il primo re d’Italia.
Alcune statue cambiano di segno: quella ad Alberto da Giussano è una statua che celebra l’unità d’Italia – e Legnano è nell’inno nazionale -, ma i leghisti degli anni ’90 e Duemila ne hanno fatto il simbolo contrario, quello del tentativo di disunirla, nell’attesa di erigere a loro volta qualche statua equestre a Gianfranco Miglio o a qualche celta cornuto (nel senso dell’elmo). Un po’ come il coro del Nabucco, che è un coro patriottico antiaustriaco (e W Verdi l’acronimo risorgimentale), diventato inno dell’enigmatica Padania.
Ogni generazione ha però il diritto anche di buttar giù le sue statue e di cambiare nome alle sue piazze e strade. Certo, il populismo è sempre in agguato. Il tentativo del sindaco di New York di cavalcare l’onda e togliere le statue di Colombo è ridicolo non tanto per Colombo, quanto per la totale incoerenza dell’attacco a quel simbolo. La proposta nasconde una cattiva coscienza collettiva talmente grande rispetto a com’è avvenuta la conquista del continente americano da essere ingestibile a quel livello. La statua non basta.
Il generale Lee è evidentemente un simbolo diverso. Confesso che quando sento parlare del generale Lee la prima cosa che mi viene in mente è la macchina di Bo e Luke e confesso anche che quando esplose la polemica anni fa sulla bandiera confederata ripensai anche a quel telefilm per capire se potesse esserci qualcosa di nascosto, qualche elemento da “sdoganare” nascostamente (o magari da cancellare per integrare il resto) in quei personaggi positivi, ma fortemente “sudisti”. Non lo dico solo come battuta, ma soprattutto perché i simboli cambiano e uno stesso personaggio, una stessa statua, una stessa piazza, può contenere ambiguamente più sensi e significati.
Perché ci sono le statue di Lee? Per ricordare che cosa? Per essere fieri di cosa? Per includere o escludere chi? E perché prima non faceva male e adesso sì? Sono gli americani a dover rispondere e decidere se trasferire le statue in un museo o se tenerle come testimonianza di una fase storica (che comunque è una guerra civile).
Giovanna d’Arco in Francia, altro oggetto controverso di statue, ad esempio, è un simbolo politico operante. Sotto la sua statua si riuniscono ancora ogni anno gli attivisti della peggior risma del Fronte Nazionale, i razzisti e antisemiti irriducibili. Ma Giovanna d’Arco, che è santa e martire della Francia, seduce anche una parte della cultura di destra normale e fa parte di una tradizione politica importante del Novecento. Nessuno si sogna di buttar giù le sue numerose statue, che però per lo più sono statue che prima non c’erano. La statua più famosa è stata eretta negli anni ’70 dell’Ottocento, guarda caso dopo la sconfitta con i tedeschi e alla ricerca di simboli di riscatto.
Insomma si possono buttar giù le statue? Sì. Si possono cambiare i nomi delle piazze? Sì.
Aggiungo una piccola considerazione, pertinente in parte.
Il 4 novembre del 2018 si festeggerà il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra. Perché non ne approfittiamo per cambiare nome a una piazza importante di Milano, intitolata al generale Cadorna, che non lasciò proprio un ricordo serenissimo di sé, della sua umanità e delle sue capacità? Di tanto in tanto viene proposto, in altre città l’hanno fatto, per esempio a Udine e a Firenze. Perché non intitoliamo per esempio la piazza alla Pace europea? Ideologia, si dirà. Può darsi, ma le statue si possono buttare giù e le piazze possono risignificare, sulla base di quello che siamo stati, ma anche di quello che vogliamo essere.
Aggiornamento: alcuni lettori mi fanno notare che la scritta che sta sul basamento della statua di Garibaldi a Bergamo non è del 1922, come il basamento (da qui la mia svista), ma precedente. Nonostante i toni, li ringrazio della segnalazione.