A Strasburgo, la città delle strade
Da settembre sarò titolare della cattedra di “Storia della filosofia medievale e rinascimentale” dell’Università di Strasburgo. Il mio lavoro mi ha portato a macinare molti chilometri negli ultimi 10 anni – ho lavorato in Italia a Milano e Torino, poi all’Università di Monaco di Baviera, all’EHESS di Parigi, all’Università di Vienna e all’Accademia Austriaca delle Scienze – e considero un’ironia (benevola) del destino quella di lavorare infine a Strasburgo, cioè quella che per etimologia e vocazione è la “città delle strade”, dei cammini, dei percorsi.
Del resto credo che l’università dei prossimi decenni – se vorrà continuare a svolgere un ruolo nella società, soprattutto in Europa – dovrà essere sempre di più un’università dei cammini e dei percorsi, dello scambio internazionale, del passaggio non solo di professori e ricercatori, ma anche di studenti, di dottorandi, addirittura di personale amministrativo. L’università dei prossimi decenni dovrà essere una forza di integrazione.
Strasburgo è in questo senso un modello avanzato. Non solo per il ruolo simbolico che svolge, ma soprattutto per la capacità che ha avuto, insieme ad altre università, di elaborare e sviluppare un modello di cooperazione transfrontaliera fortemente operativa con le università di Friburgo e di Karlsruhe in Germania, con quella di Basilea in Svizzera, con quella dall’Alta Alsazia in Francia, federate in una regione della ricerca che unisce tre nazioni (e che permette a studenti, dottorandi, studiosi, professori e impiegati di percorrere cammini comuni e reciproche contaminazioni).
D’altronde, l’università in generale non potrà reggere ai mutamenti della società e direi del mondo – e anche agli attacchi periodici, e a volte giustificatissimi, dell’opinione pubblica -, se non sarà capace di costruire integrazione, di giocare il proprio ruolo a un livello europeo. Non si tratta solo di un destino politico, per così dire, ma dell’esigenza di arricchimento e di ripensamento che molti saperi e discipline sembrano manifestare e che richiedono sforzi di ricerca articolati.
Questo non vale solo per le scienze “dure”, dov’è del tutto evidente, e per le scienze dell’economia, a mio avviso, ma vale anche per i saperi umanistici, nelle discipline storiche e filosofiche, che sono in crisi soprattutto nel loro rapporto più ampio con la società. Si è perso in Europa, forse per fortuna, quel legame otto-novecentesco tra università e società che faceva della discorsività storica una delle basi complesse della progettualità politica e che attribuiva alle filosofie il compito della critica alle ideologie (o di sostegno ad esse). Le vecchie risposte di questi saperi sembrano essere percepite come in via di consunzione perché sono le domande di fondo che l’opinione pubblica non comprende più. Ecco perché è necessario riformulare quelle domande di fondo, in un mondo che cambia velocemente, cioè formularne di nuove. E lo si sta facendo, naturalmente.
Ma ecco anche perché è necessario comprendersi tutti insieme, costruire insieme le nuove domande, capire contaminandosi in che direzione si sta andando, prendendo sul serio il cambiamento del mondo (ce lo insegna proprio la storia). A me pare un esercizio di umiltà, che non può che passare attraverso l’integrazione internazionale, l’ascolto, la parola, l’organizzazione e la valutazione della ricerca, ma anche i processi di finanziamento, di coinvolgimento di tutti gli attori del nostro mondo, soprattutto l’ambizione a comprendere e a formare studenti ambiziosi e liberi. Per fare questo non servono né la retorica fessa della fuga dei cervelli, né i culi di pietra che presidiano le posizioni, né i politici e i loro consiglieri incapaci di pensare nuovi modelli di organizzazione della ricerca e dell’insegnamento, né le conventicole che fingono di essere scuole di pensiero. Servono servono domande, servono scelte, servono fondi, servono chilometri, servono strade da percorrere.