Referendum scozzesi e schede borboniche
Dopo il risultato del referendum scozzese e il conseguente sospiro di sollievo si è assistito a una valanga di commenti di lode della democrazia britannica e di maturità dei votanti scozzesi. Sembra quasi che anche William Wallace abbia votato per il no (ma non oso immaginare quante ne avremmo sentite, e dette, e giustamente, sui populismi che avanzano, sull’inceppamento degli Stati, sull’insensatezza delle masse in caso di vittoria dei sì). In ogni caso è andata bene e abbiamo anche salvato milioni di tazze con la Union Jack sovrimpressa.
Per Gramellini, “usata bene, nel contesto giusto”, la democrazia funziona alla grande. E il Regno Unito evidentemente è un contesto giusto e lì è usata bene, visto che “in cabina fila tutto liscio”. Poi, in contesto britannico, termina con uno strano appello danese (forse in virtù di comuni discendenze normanne): è inutile che Renzi blateri di riforme danesi, perché per fare quelle ci vogliono i Danesi. Superati in un colpo solo da Britanni, Scozzesi e Danesi.
Michele Serra individua il divide tra civiltà nella scheda stessa. Gli Scoti britannici chiedono in modo semplice “Vuoi che la Scozia sia un Paese indipendente?”. Noi invece nei nostri referendum scriviamo lenzuolate di paroline astruse e minacciose, in uno stile “paraborbonico”, dove non si capisce neppure se è “sì” o “no” quello che pensiamo. In parte è vero, ammettiamolo, ma è anche vero che i nostri referendum abrogano delle leggi e la legge che si abroga andrà pure indicata con il suo nome, almeno un po’.
C’è poi da dire che la scheda del referendum monarchia/repubblica (la cosa italiana più vicina al referendum scozzese) portava scritto “Referendum sulla forma istituzionale dello Stato. Monarchia Repubblica. Apporre un segno nella casella a fianco del contrassegno prescelto”. Roba di una semplicità da far impallidire anche un danese in vacanza a Edimburgo. Certo una scheda sull’indipendenza della Padania sarebbe più complessa e dovrebbe tenere in conto almeno tre risposte: sì, no, boh, dal momento che i confini ancora chiari chiari non lo sono.
Curioso poi che la vis autodenigratoria italica chiami sempre in ballo i Borbone, come nella migliore ideologia italiana postunitaria. Del resto i plebisciti con cui furono annessi vasti territori e entità istituzionali precedenti nel nuovo regno italiano avevano una forma semplicissima, come quella scozzese: “Volete l’unione alla monarchia costituzionale di Re Vittorio Emanuele II?”, con varianti a seconda dei territori. Ma quindi siamo paraborbonici pur essendo savoiardi? E non ci piacciamo in quanto post o pre italiani? Non è chiaro, ma nel frattempo diamoci dei pirla.
Serra (che certo rimane il genio delle 2000 battute) conclude poi con lo sconsolato “siamo il Paese che chiama ‘dottore’ e ‘cavaliere’ chiunque”. Non siamo purtroppo come gli Anglosassoni dove tutti, ma tutti tutti, dice Serra, sono “Mister”. Questa chiusa, che per la Francia varrebbe (ma attenzione perché è un’ideologia anche quella), mi ha fatto venire in mente quando anni fa partecipai a un concorso per una posizione accademica in Inghilterra. L’application on line richiedeva di dare alcuni dati da un elenco a finestra, tra cui il titolo da usare nella corrispondenza e nelle conversazioni ufficiali, compreso l’eventuale colloquio orale.
Mi misi a cercare il “Dr”: non che non mi andasse bene il Mister, ma era un concorso che presumeva un dottorato di ricerca (che è il titolo che all’estero consente di essere indicato come Dottore) e non volevo fare errori formali. I titoli tra cui scegliere erano decine e decine. Ricordo bene il primo in ordine alfabetico – e giuro che fui tentato di indicare quello, mandando tutto all’aria, solo per ricevere una lettera con quell’intestazione: Admiral of the Fleet. Ammiraglio della Flotta. Altro che Borbone.