Qualche osservazione sulle abilitazioni scientifiche
Ora che i risultati della prima abilitazione scientifica nazionale sono stati resi pubblici in quasi tutti i settori disciplinari, si possono forse fare alcune piccole considerazioni.
Premetto che io ho ottenuto l’abilitazione in tre diverse discipline – Storia della filosofia, Storia delle dottrine politiche, Filosofia politica -, quindi non ho motivi personali di recriminazione e insoddisfazione (se non, forse, che non avrò comunque un posto), e che sono sempre stato favorevole al meccanismo dell’abilitazione, perché introduce alcuni elementi di complessità nel sistema sclerotizzato dei concorsi, ma che non basta assolutamente e va comunque migliorato.
Non si possono però non fare alcune osservazioni, con particolare riferimento alle discipline umanistiche (che ho seguito più da vicino e in molti più settori di quelli di mio stretto interesse). La prima osservazione, forse marginale, è su una certa diffusa sciatteria nella formulazione dei giudizi, con spesso piccoli o grandi errori sui titoli, sbagli nel merito che sembrano istigazioni a fare ricorso, fraintendimenti, facilonerie, incongruenze, e soprattutto con una lingua italiana a volte ai limiti dell’accettabile. Spesso (ma non sempre e non in tutte le aree) i membri delle commissioni si sono prodotti in un italiano fintamente burocratico, zoppicante, a dir poco inelegante. Diciamolo francamente: i candidati avrebbero meritato una costruzione ineccepibile dei giudizi. Non è sempre stato così, va detto.
Un secondo elemento mi pare molto più importante. Le commissioni hanno spessissimo inteso il perimetro della propria disciplina in senso restrittivo (e anche a volte forzando molto le definizioni disciplinari). A moltissimi studiosi non è stata concessa l’abilitazione non perché non raggiungessero un certo grado di maturità, di produttività, di esperienza, ma perché il loro profilo è stato giudicato non completamente coerente con la disciplina per cui si chiedeva l’abilitazione. In questo senso le commissioni si sono assunte implicitamente una funzione di definizione di che cosa sia una particolare disciplina e dunque di che tipo di studiosi siano abilitati a insegnarla o a fare ricerca che a me è parsa spesso non solo rigida, ma riduttiva.
In ogni caso la conseguenza è chiara: un giovane che cominci oggi a fare ricerca è di fatto indotto a percorrere percorsi che non esulino troppo da quello che è considerato mediamente il nucleo di una disciplina. C’è una logica, naturalmente, nel proteggere una disciplina, i suoi metodi, le sue grammatiche, le sue problematiche tipiche, la sua direzione di senso. Tuttavia un’interpretazione riduttiva ed esclusiva di questa definizione disciplinare – che, ricordiamolo, è storica, non è un dato di natura, non è un’acquisizione atemporale – mette in difficoltà quei profili di studiosi che volutamente si collocano all’intersezione fra varie discipline, o cercano di aprire nuove piste d’indagine, anche dal punto di vista metodologico.
In poche parole, un atteggiamento come quello dimostrato da molte commissioni scoraggia alcuni stili di ricerca, blocca indagini che proprio perché si pongono al confine hanno un potenziale importante. Non si tratta solo di un colpo netto a qualsiasi velleità interdisciplinare – perché uno studioso che tenti oggi quello pista rischia di rimanere senza abilitazione alcuna e quindi senza lavoro -, ma di un invito a concentrare i propri sforzi su una singola e ben riconoscibile disciplina.
Le discipline umanistiche stanno cambiando, sta cambiando il loro ruolo perché sta cambiando la società, i saperi critici sono a loro volta in crisi perché cambia anche il rapporto, il nesso, tra un certo sapere e il suo pubblico di fruitori. Il dibattito è apertissimo. Optare per un irrigidimento dell’iperortodossia disciplinare accademica potrebbe non essere il miglior modo per cominciare a riflettere su questi cambiamenti.