La merce più ricercata
Un paio d’anni fa scrissi che, a guardarla da fuori, l’Italia è ubiqua (qui l’introduzione a quel libretto), scrissi che è ubiqua perché esistono innumerevoli presenze ideali e concrete nello spazio globale che rimandano ad essa, con più o meno forte intensità.
Vale per tutti i paesi, nell’era della globalizzazione: chi è capace di porsi al di fuori di se stesso, di non chiudersi, di collocarsi al centro di reti mondiali dosando flussi di informazione, di conoscenza, di competenze, di essere presente nell’immaginario globale. E per l’Italia questo vale in un senso ancora più essenziale. Pensiamoci un attimo: non c’è idea nello spazio occidentale che non rimandi in un modo o nell’altro all’Italia.
Certo l’argomento è sdrucciolevole, perché rischia di farci scivolare nel luogo comune di un’Italia sede della bellezza e della creatività che l’ha prodotta. Ma la competizione globale si gioca anche sui luoghi comuni, anzi è sfruttamento di luoghi comuni (che non sono banalità).
Renzo Piano in un’intervista di sabato scorso a Repubblica, che mi ha molto colpito, ha sintetizzato un pensiero che ormai è di tutti: «Siamo il paese più bello del mondo e la bellezza è oggi la merce più ricercata. Abbiamo immensi giacimenti culturali, una miscela unica di meraviglie naturali e costruite nei secoli, una posizione centrale nel Mediterraneo (…)».
«La bellezza è la merce più ricercata». E in un’ottica di storia globale, l’ubiquità italiana è strettamente legata al riconoscimento di questa bellezza, al punto tale che una nozione così apparentemente vaga (e retorica, in certi discorsi) può invece diventare un fattore strategico di sviluppo. È opinione che si sta diffondendo l’idea che ci sia un legame potenziale e specificamente italiano tra cultura, industria, bellezza, economia. Chiediamoci allora: che cosa facciamo per sfruttare questa specificità? Come stiamo lavorando perché l’Italia possa beneficiare dei luoghi comuni associati a bellezza e creatività? Come si disegna un sistema? Come sfruttiamo questa ubiquità già riconosciuta, visto che la globalizzazione si gioca anche sulla capacità di essere ubiqui? Come si costruisce un sistema, economico, industriale, culturale, a partire da questo patrimonio dinamico?
Nel dibattito politico il tema sembra però essere ancora un po’ retorico e un po’ troppo ammiccante. Mi chiedo allora, per esempio, se i candidati alla guida del PD, che si stanno ora affrontando e avranno un ruolo fondamentale nelle decisioni dei prossimi anni, considerino la frase sintetica di Renzo Piano (e il connesso tema della proiezione globale dell’Italia) come un orizzonte strategico.
Sappiamo ormai abbastanza bene che cosa pensano del fisco, a chi si ispirano nel ridisegnare il mercato del lavoro, qualcosa si capisce anche (non benissimo però) delle riforme istituzionali che hanno in mente. Abbiamo capito bene il loro posizionamento, che il momento è Adesso, che è Tempo di crederci, che Le cose cambiano cambiandole, ma su questo punto specifico, che però dice molto della capacità di una leadership di mobilitare le energie potenziali di un paese, abbiamo solo accenni. Civati, Cuperlo, Pittella, Renzi (ordine alfabetico) hanno un piano, un progetto, una squadra dedicata, qualche punto di riferimento, una visione della questione che si traduca in strategia concreta? In sostanza: può essere considerata una priorità vera in un loro governo di domani e come si attrezzano a organizzarla? A me piacerebbe che ne parlassero.