Osservazione minima sul conclave e noi
La chiesa cattolica non è una democrazia, né può esserlo. Da quest’affermazione di solito in Italia discendono due atteggiamenti contrari. Quello di chi pensa che la chiesa possa solo nuocere al dibattito pubblico, e dunque tende a pensare che ne possa essere esclusa, prima o poi. E quello di chi pensa che le opionioni delle gerarchie non debbano passare al vaglio dell’opinione pubblica e che quindi la gerarchia ecclesiastica possa porsi nel dibattito nella forma ambigua di chi parla ma non può essere contestato.
Il problema invece può essere affrontato nel modo contrario: cosa può fare la gerarchia cattolica per essere di supporto alla cultura democratica italiana e alla crescita di un vero dibattito pubblico? In un libretto sull’Italia che ho scritto un paio d’anni fa, in uno dei capitoli mi ponevo espressamente la domanda. La risposta mi sembrava semplice: in primo luogo non nascondere i conflitti interni, mostrare le diverse opzioni dei vescovi italiani sul ruolo della chiesa nella società, valorizzare l’idea che il dibattito, lo scambio e l’essere portatori di idee siano valori utili non meno dell’autorità e dell’appartenenza, e cioè che è il dibattito, regolato e sensato, che porta alle decisioni, alle linee strategiche, alla ridefinizione del reale e dei suoi contorni. Come strumento per realizzare tutto questo, io addirittura proponevo – ma forse era solo un esperimento mentale – che il capo della CEI venisse deciso proprio in funzione di questo dibattito tra i vescovi (come succede di fatto in molti altre conferenze episcopali) e non dal semplice atto di nomina del papa (che pure tiene conto delle posizioni). L’elaborazione intellettuale e politica, lo sforzo di immaginare sinceramente le linee di trasformazione del mondo, la coscienza, la differenza di interpretazione su come pensare ogni volta nuovamente i valori evangelici – cioè in sintesi un po’ di profezia, sono anche la sostanza di ogni dibattito pubblico e democratico. E la società assorbe e produce valori, ideali regolativi, sistemi di comportamento di contesti diversi. La chiesa non è impermeabile alla società e la società non è impermeabile alle prassi e ai condizionamenti di tutte le grandi culture che la abitano.
La chiesa italiana in questi anni non sembra però aver avuto sempre questa impostazione e non sembra aver dato questo specifico contributo (e quando scrivevo non era ancora neppure scoppiato l’affare Vatileaks). Ed è anche per questa mancanza che si è presentata così ulteriormente divisa sulle candidature per il nuovo papa.
L’ha avuta però la chiesa generale nel conclave – e nello specifico conclave resosi necessario dall’atto dirompente delle dimissioni del papa precedente, che ha così aperto un dibattito e un’esperienza che rimarranno aperte per molto tempo. Questo conclave – che resta l’azione elettiva di una monarchia assoluta – ha mostrato come lo Spirito Santo (mi voglio esprimere così) si giovi e anzi abbia bisogno dell’intelligenza degli uomini, delle loro idee su cosa sia meglio, dei loro ragionamenti geopolitici, della loro comprensione dei mutamenti mondiali, anche dei loro conflitti ragionati, dei loro ripensamenti di linee strategiche, ha mostrato come si giovi del dibattito tra persone e tra interessi, della loro idea di quale sia il bene comune, del voto delle persone. E penso che se di questo metodo se ne giova lo Spirito Santo – che non sceglie il papa tirando i dadi – potremmo giovarcene anche noi, irrobustendo le nostre capacità individuali e collettive di critica e di comprensione.