Italiani sono sempre gli altri
Tra le affermazioni più autoassolutorie di militanti e commentatori che circola puntuale a ogni elezione o appuntamento politico c’è «All’estero ci prendono in giro», con tutte le sue varianti «Non succede da nessuna parte del mondo» o «Nelle grandi democrazie occidentali…». A volte si accompagna con l’immancabile «io quasi quasi emigro, faccio le valigie. Scappo. Qui non si può vivere». E falle ‘ste valigie, no?
Naturalmente poi chi lo dice pensa che ci prendano in giro per qualcosa che hanno fatto gli altri: votare Berlusconi, votare Grillo, votare i comunisti, avere un’idea che non sta in nè cielo nè in terra. Italiani, come sempre, sono gli altri.
Sì è vero, c’è chi scrive all’estero che mangiare maccheroni forse fa diventare scemi (più o meno sono gli stessi che mettevano in prima pagina durante il terrorismo gli spaghetti e la rivoltella), ma per noi diventa argomento politico da bar, conferma dell’errore altrui, motivo per scaricare sugli altri le ragioni di una situazione in effetti cronicamente difficile e per fare spallucce davanti a quell’essere irrimediabilmente speciali che ci deresponsabilizza.
Eppure tanto speciali non siamo. Il Belgio è rimasto più di un anno senza governo, perché in quattro gatti non sono riusciti a mettersi d’accordo. In Francia il partito di Sarkozy non è riuscito a eleggere un proprio segretario perché da mesi e mesi si accusano di brogli reciprocamente e i due pretendenti non si rivolgono la parola (altro che le regole delle primarie di Rosi Bindi!). Ci siamo già dimenticati del Partito Repubblicano americano che per mettere in difficoltà Obama ha portato gli USA sull’orlo del disastro (altro che finanziarie all’ultimo minuto!). Bush jr che appena eletto pensava che i Talibans fossero un gruppo musicale ormai è storia (ma le corna di Berlusconi le tiriamo sempre fuori).
E pure il comico che vuole accedere al potere per cambiare il paese non è una invenzione nostra. Lo feci notare a uno spocchioso collega francese qualche mese fa, che effettivamente ironizzava. Ci fu già uno tsunami alla Grillo, nel 1981 proprio in Francia, dove un personaggio amatissimo dai francesi, Coluche, che amava anche il travestitismo e aveva una comicità surreale, si candidò alla presidenza, con lo slogan «L’unico candidato che non ha bisogno di mentire». Dato al 20% nei sondaggi, minacciato varie volte, malvisto dall’entourage di Mitterrand, si ritirò qualche mese prima del voto, in seguito all’omicidio di un suo collaboratore. Non fu presidente ma cambiò comunque la percezione della lotta politica.
Certo ammetto che non è facile spiegare agli stranieri la situazione italiana – e a me tocca a volte farlo, perché lavoro all’estero da un po’ di anni -, ma non è certo l’eccezionalità italiana un argomento valido. Ma non è neppure stato facile capire un argomento di Matteo Orfini, il giorno delle elezioni, che diceva che il problema del risultato era la legge elettorale italiana, perché «Hollande con il 27% dei voti ha vinto le elezioni» e qui invece non si riesce. Non è così, perché Hollande ha preso i voti nell’elezione presidenziale, non in quelle legislative e l’esempio è del tutto incongruo (l’esempio l’ha poi ripreso Bersani peggiorandolo, perché ha detto che in Usa, in Francia e nel Regno Unito con quei numeri si sarebbe vinto: due esempi su tre di votazioni dell’esecutivo e non del legislativo). In Francia con il 15-20% alle legislative i Le Pen non hanno praticamente mai rappresentanti in Parlamento. Se la sente Orfini – che l’altro ieri aveva un compito non facile – di proporre il sistema francese (o almeno di non fare quell’esempio)?
Voglio dire che all’estero non ci prende in giro nessuno – ma sono tutti preoccupati, come lo siamo noi – e se ci sentiamo degni di presa in giro, cerchiamo di capire dove dobbiamo intervenire per costruire un sistema in cui le idee degli altri si incanalino con le nostre in qualcosa di costruttivo.