De potestate papae
Sono a pranzo con un collega a Parigi quando ricevo un sms «ma il papa si è dimesso davvero?» e subito a ruota un altro di un amico che di teologia se ne intende ed esprime il circostanziato «grande ratzy!». Non ci faccio caso, ma dopo 10 minuti mi telefona il giornalista di un quotidiano: «Ci fa un pezzo sulle dimissioni del papa?». «Ma che papa, scusi?». «Ratzinger». «Ma è malato?». «No, è stanco». «Il secondo papa dopo Celestino». «A noi risulta essere il quarto, dopo anche un Gregorio e un Clemente». Ah sì certo, Clemente, il papa leggendario che viene dopo gli altri leggendari Lino e Anacleto, di cui le cronache medievali raccolgono dati confusi e contraddittori e che si rompono la testa a interpretare una lettera a lui attribuita indirizzata alla chiesa di Gerusalemme, che parla di comunità e comunismo, e che però non ha scritto lui.
Il pezzo non lo scrivo perché devo prendere l’aereo (che perdo), ma mi vengono in mente due cose. La prima è l”impressione che ebbi quando Ratzinger fu eletto. Mi trovavo per caso a Roma e non per caso a piazza San Pietro quando il camerlengo dichiarò che «habemus papam». La piazza restò percettibilmente sorpresa e per un interminabile secondo ci fu un grande silenzio. Non c’era un Giovanni Paolo III, l’epopea non continuava, ma ci trovavamo un semplice Benedetto XVI, e in più un forte conservatore nello spirito e nei modi, un uomo di curia. Poi però la sorpresa si sciolse in un’acclamazione e ricordo che pensai che proprio così gli imperatori romani – vestiti dello stesso colore dei cardinali – dovevano essere acclamati dal popolo: populus facit imperatorem; o come ripetevano i giuristi medievali l’imperatore diventava tale populo faciente et acclamante. L’acclamazione come potere costituente, valeva anche per i vescovi nei primi secoli. Capire quanti fili ci legano, pur nei cambiamenti di significato, a un’epoca ancestrale rimane un mistero.
Poi ho pensato naturalmente – per deformazione professionale – all’antecedente di Celestino V nel XIII secolo, alle grandi conseguenze intellettuali e politiche che quel gesto provocò. Perché il problema tecnico-giuridico delle dimissioni papali nacque in modo non banale in quella situazione. Se anche un sacerdote rimane tale “in eterno”, se è lo Spirito Santo che sceglie il papa, come è possibile rinunciare alla carica? Il papa ha questo potere? Ne nacque un dibattito tale da generare un genere filosofico e politico a sé, quello dei trattati de potestate papae. Il problema fu risolto, dopo scontri, dopo anche la distruzione di una città (Palestrina, i cui signori, i cardinali Colonna, si rifiutavano di riconoscere le dimissioni del vecchio papa, per negare la validità dell’elezione del nuovo, che guarda caso era stato il responsabile giuridico della curia di Celestino): esiste un potere d’ordine che rimane per sempre, ma alla giurisdizione si può rinunciare, l’effettivo potere sulla chiesa è l’elemento umano a cui si può rinunciare, perché è nella disponibilità degli uomini. Questi dibattiti – provocati da un atto di rinuncia – hanno cambiato la storia del pensiero politico e Celestino è entrato nella storia non tanto per quello che ha fatto, ma per come la sua rinuncia a fare abbia prodotto più di quanto egli stesso avrebbe pensato di poter realizzare.
Se fosse questa una chiave per capire anche le dimissioni di Benedetto XVI, un uomo che rinunciando pone di fatto questioni sul senso stesso dell’azione della chiesa contemporanea, sulla responsabilità degli individui e delle gerarchie di una grandiosa istituzione che per i credenti ha una radice divina, ma che mostra la sua natura straordinariamente umana? Il papato di Benedetto XVI non è stato uno dei grandi della storia, ma l’atto di rinuncia rischia di essere grandioso per le conseguenze e le trasformazioni che può determinare.