Presidenzialismo (come i francesi). Io dico di sì
Molto timidamente (perché esce dalle mie competenze strette) ne avevo già parlato. Ora che il dibattito sembra possibile lo dico più esplicitamente: il semipresidenzialismo sarebbe una buona soluzione per uscire dall’impasse italiana ed è compatibilissimo con la nostra cultura.
Pensiamo alla Francia. Un presidente eletto dal popolo, un presidente che nomina il governo svincolandolo dal ricatto quotidiano dei partiti, ma non dal controllo del parlamento.
Un parlamento finalmente libero di legiferare senza condizionamenti e capace di porsi in rapporto dialettico con il governo e il presidente, sulla base delle culture politiche che lo compongono.
Un presidente che non può non assumere la responsabilità del proprio operato, ma che è costretto a mettere in luce altre personalità forti e competenti (il suo primo ministro e i componenti del governo) che però possono sfidarlo all’elezione successiva – si pensi a Sarkozy e Chirac, a Chirac e Giscard d’Estaing – garantendo quel tratto culturale che a noi è mancato, cioè l’idea del ricambio possibile.
Pensiamo ai partiti. Un partito che vuole vincere le elezioni in un sistema del genere deve saper generare idee (anche diversificate) e competenze, perché la battaglia sarà anche sulle idee e sulle competenze (oltre che sulle identità politiche degli elettori). Deve consentire che si strutturino le ambizioni dei singoli e che le personalità forti e le intelligenze non si nascondano, ma anzi si mostrino.
Un partito in un sistema del genere sa che la mediazione è utile, ma che il compromesso come valore ultimo può essere nocivo; sa che per arrivare alla carica presidenziale bisogna prepararsi, bisogna prevedere un percorso, un accrescimento di esperienze e di capacità e favorisce (e non impedisce) questo percorso per i suoi militanti, funzionari e dirigenti, perché ci sarà in primo luogo una singola “personalità che incontra il popolo”, come dicono in Francia.
E tutto questo perché appunto a vincere le elezioni non è semplicemente un partito o una coalizione, che poi deciderà le nomine senza darne conto, che spartirà i posti senza dire i criteri che usa, che attribuisce le responsabilità senza risponderne, ma una persona, che incarnerà il patrimonio ideale di quella generazione politica con libertà e intelligenza, di fronte ai suoi concittadini. (Lo dico come inciso: i partiti italiani possono sicuramente riformarsi, ma solo fino a un certo punto, perché è il nostro parlamentarismo che li spinge a essere come sono, ipertrofia, rigidità, autodifesa, conservatorismo compresi).
Un sistema del genere ha anche alcune ricadute culturali importanti, che non vanno sottovalutate nella loro capacità di rigenerare la visione collettiva. Si trasmette l’idea che ci si misura con la propria generazione, che è possibile aspirare a ruoli importanti, che è necessario strutturare ambizioni e poi sostenerle preparandosi e lavorando. Ci si può candidare a tutto e ogni progetto di vita è un’ambizione. Si possono comporre le ambizioni di tutti in un progresso comune, anziché bloccare quelle di ciascuno nell’attesa e nelle semplice cooptazione. È anche questo quello che il presidenzialismo racconta in una democrazia sana.
Ci è stato spiegato tante volte che gli italiani non sarebbero pronti a un sistema del genere (ma ci è stato raccontato proprio dai difensori dello status quo e dai pigri), è stato anche detto frettolosamente che il presidenzialismo sarebbe meno democratico di un sistema che concentra tutto sul parlamento (magari dagli stessi che si lamentano dell’assenza di un”Obama italiano” o adesso di un “Hollande italiano”, dimenticando che un governo Obama in Italia sarebbe caduto alla prima dichiarazione dai contenuti contrari a una corrente qualsiasi della sua stessa maggioranza), altri dicono, ammesso che un argomento ad hominem sia un buon argomento, che con il presidenzialismo Berlusconi non sarebbe mai caduto (io invece dico che avrebbe governato molto meno tempo. E magari la sua area politica di più e meglio).
Quello che a me sembra urgente è però rendersi conto che il semplice dibattito sulla legge elettorale, che sento fare in queste settimane (e spesso nel senso di un per me assurdo ritorno al proporzionale), non è il nodo della questione. Bisogna riformare lo stato in modo molto più profondo. Bisogna cambiare radicalmente il nostro sguardo sul problema. Bisogna cambiare paradigma. Ma se non ce ne rendiamo conto adesso, sarà quasi impossibile parlarne dopo le elezioni politiche.