Lasciamo gli ideologismi e inventiamo ideologie
Il post è scritto a quattro mani con Marco Simoni a partire da uno scambio di opinioni su twitter.
C’è un paradosso particolarmente evidente nel dibattito pubblico italiano. Da un lato non si trova più nessuno che difenda o proponga esplicitamente un’ideologia. Del resto le ideologie sono screditate da decenni, non perché fosse disprezzata la loro caratteristica di leggere e filtrare la realtà e di costruire progetti di cambiamento e di conservazione selettiva, ma per l’invincibile dogmatismo che si sono sempre portate dietro.
Una ideologia portava con sé il dogmatismo delle opinioni e dei comportamenti, che non tollerava diversità o pluralismo, e che finiva quindi per accecare l’ideologia stessa rispetto alle caratteristiche della realtà. Quel dogmatismo però ai tempi delle ideologie esplicite discendeva, appunto, da discorsi ampi sulla società, da antropologie politiche, da teorie del conflitto e del suo superamento, da premesse filosofiche sull’uomo, sul lavoro, sulla realizzazione.
Le ideologie novecentesche sono venute meno, e nessuno oserebbe riproporle. Sono rimasti gli ideologismi, qui è il paradosso, e fungono da rinnovati dogmi che delimitano confini tribali più che ideologici. Ideologismi come spezzoni di argomentazioni, frammenti di discorso che hanno perso il loro riferimento più ampio, opinioni che in assenza della struttura ideologica che le ha generate perdono di senso e traducono soltanto fastidi, partiti presi, scorciatoie mentali. Eppure, continuano a svolgere la funzione di riferimenti istintivi e sentimentali, che tuttavia spogliati da contenuti reali come sono, generano populismi e non sono portatori né di analisi corrette, né di soluzioni possibili.
Chi oggi oserebbe dire che i mercati non regolati producono automaticamente benessere per la società? Chi direbbe che la proprietà privata va abolita? Chi individuerebbe una classe universale da liberare perché tutti siano liberi?
Ci si limita a dare dello sfigato a chi guadagna 500 euro; si accusa il ricco di essere disonesto o in malafede; si assolutizzano simboli– si parla di Marchionne e non di come reindustrializzare, dei Centri Sociali e non di come liberare socialità– issandoli come nemici o baluardi di “sistemi” solo emotivi, non certo concreti.
Infatti, è questo il punto, ci si concede il lusso dell’astrazione senza concretezza e dell’utopia senza creazione. Nel nostro dibattito pubblico si perde ancora tempo a collocare se stessi e il proprio gruppo in un immaginario politico e sociale nutrito di ideologismi novecenteschi e che ormai si sono trasformati in miti, in topoi dello spirito, in cordoni ombelicali. Non essendo in grado di proporre una visione, o discutere contenuti coerenti, si usano, ci sembra, gli strumenti rimasti per quanto poveri o mal funzionanti.
Infatti, seppure mero riflesso di sistemi comprensivi di interpretazione, gli ideologismi rispondono in maniera imperfetta al bisogno di senso delle persone, che non è scomparso con le ideologie, e che non si fonda su una lista interminabile di giuste cose da fare. Sarebbe allora il momento di abbandonare gli ideologismi senza ideologie e di costruire ideologie nuove, non nel senso dei dogmi e delle parole d’ordine, ma dell’interpretazione di una realtà che è nuovissima, che prima non c’era, che non c’è mai stata.
E se liberassimo energie per sforzarci di capire davvero cosa succede, di come si sta evolvendo il mondo, di cosa pensano gli altri, gli altri paesi, gli altri continenti e i loro abitanti? Certo non bisogna partire da zero, non bisogna essere ingenui, ma essere all’altezza di un mondo nuovo, questo sì.
In fondo era quello che hanno cercato di fare Smith, Stuart Mill, e Marx.