Non è un post sui cervelli in fuga
C’è un tipo di emigrazione italiana all’estero che non è ancora stata messa bene a fuoco. Anzi spesso se ne ha una percezione distorta.
La si vede o con le lenti del passato (come se chi se ne va fosse ormai perduto e fuori dall’orizzonte italiano) o con categorie idiote come “cervelli in fuga” (e fateci caso: l’espressione la usa di solito chi non si è mai mosso e avanza rivendicazioni corporative).
In ogni caso si ha una visione vecchia dell’essere fuori o dentro il paese. C’è oggi davvero un dentro e un fuori come in passato? C’è davvero un qui e un lì così marcato dalle frontiere e dallo spazio?
Dieci anni fa la distanza si calcolava in chilometri, oggi in ore. Da Milano a Berlino in aereo ci vogliono due ore scarse. E costa come andare da Milano a Bologna in treno. Quindici anni fa le compagnie low cost non c’erano. Ad ogni viaggio bisognava cambiare moneta e riferimento. Alla frontiera il treno si fermava e ti chiedevano i documenti (a volte ti controllavano anche il bagaglio). Non potevi avere notizie in tempo reale dall’Italia. Non c’erano giornali on line, non c’era la tv online. Potevi solo comprarti il giornale, ma di due giorni prima e nel caso telefonare a casa (dalla cabina) al prezzo di una pizza. Fino a 10 anni fa non potevi neppure mandare un sms da un paese all’altro, tecnicamente.
Tutto questo rendeva il lavoro all’estero o un addio all’Italia (e dell’Italia a te), oppure un’esperienza temporanea da privilegiati assoluti. Oggi è una cosa possibile e normale.
Cognitivamente, il fenomeno è nuovo. Soprattutto nella percezione che si può avere del paese, perché chi oggi decide di spostarsi in altri paesi, lo può fare senza abbandonare l’Italia, e anzi maturando l’esperienza di una relazione nuova con il proprio paese.
Si può essere nel paese in ogni momento, anche essendone fuori. Si può vivere all’estero e sapere tutto, rimanere in contatto con tutti, partecipare alla vita collettiva, contribuire in molti modi. Si può continuare a guardare al paese. E del resto si può anche tornare. O pensare di tornare per un po’ e poi spostarsi di nuovo. Le scelte sono aperte e reversibili. Come se Londra o Parigi fossero altre città della stessa rete. Non è una cosa da ricchi, e psicologicamente assomiglia di più a uno strano pendolarismo. E moltissimi ragazzi ormai stanno all’estero per due o tre anni, per studio o per lavoro, poi rientrano.
Come si può allora mettere a frutto il fenomeno? È possibile? Al di là delle retoriche di “chi resta” di “chi va”, questo come modifica la percezione del paese, come cambia il paese stesso? Come possiamo disegnare a nostro vantaggio l’idea di un’Italia davvero aperta nello spazio europeo? È possibile organizzare in qualche modo questa presenza italiana all’estero o far convergere verso l’Italia, in forme da pensare, le conoscenze e il saper fare che questi italiani imparano dai vari paesi? Il fenomeno è nuovo e quindi è ancora da pensare e da capire. Ma potrebbe essere una risorsa per l’Italia dei prossimi tempi.