Perché adesso ci servono i partiti
Può sembrare un paradosso o una provocazione, ma adesso abbiamo bisogno dei partiti.
L’Italia ha accumulato un ritardo di comprensione del mondo nuovo di almeno un decennio. L’Europa, il ruolo degli stati nell’economia globale, la messa a fuoco dell’importanza dei beni comuni, il rapporto tra capitale, nuove tecnologie e libertà, le conseguenze economiche e culturali della libera circolazione delle persone, prima ancora che delle merci, nello spazio europeo, i nuovi modelli di socialità, che prefigurano nuove antropologie, sono tutte sfide di comprensione che finora il discorso pubblico e in particolare politico non è stato in grado di affrontare compiutamente.
Il ritardo di comprensione collettiva è stato anche, e quasi soprattutto, la rinuncia dei partiti a svolgere un ruolo di interpretazione e di filtro della realtà.
La metafora guida dell’intervento politico resta quella della “ricetta”, che sia ricetta di destra o di sinistra, cioè di un ruolo tecnico che è giusto e necessario, ma scollegato da visioni più ampie. Ma nell’elaborazione collettiva non siamo ancora riusciti a uscire dal labirinto delle parole d’ordine ambigue e spuntate di un mondo che non esiste quasi più, ci siamo scontrati contro un muro di spezzoni argomentativi desunti dalla vulgata marxista – senza mai mettere a fuoco una visione realmente sociale delle cose – o dalla retorica liberale – senza mai neppure sfiorare l’idea di un progetto di libertà dalle ineguaglianze o di perseguimento delle realizzazione individuale e collettiva.
Siamo stati lasciati soli nel comprendere il mondo. Ma come cittadini ed elettori, non abbiamo bisogno di ricette, che peraltro i partiti hanno in questo momento demandato ai tecnici, abbiamo bisogno di capire. Abbiamo bisogno, forse, che i partiti riassumano il ruolo pedagogico che la nostra tradizione repubblicana aveva loro assegnato. Pedagogia è una parola ambigua, mi rendo conto, perché sembra stabilire un’inaccettabile asimmetria.
Inoltre in un mondo aperto i partiti non possono più avere una presa “pedagogica” sulla società, non possono più indirizzarla culturalmente. Ed è un bene. Peraltro, si potrebbe obiettare, che cosa avremmo noi da imparare da un ceto che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza, che è stato sì uno specchio della società, di noi stessi, ma uno specchio deformante, che ha reso peggiore ai nostri stessi occhi l’immagine che rifletteva, che ha oggettivamente impedito il cambiamento?
Eppure abbiamo bisogno che questo ruolo, in questo momento, sia svolto. Perché abbiamo bisogno di capire che cosa c’è di nuovo e importante nella nostra società, che è ormai il mondo, e dobbiamo trasformare questa comprensione in azione, in scelte, in tentativi, in politica, in costruzione della nostra felicità. Abbiamo bisogno, mi sembra, di un agire interpretativo, di un agire comunicativo (tutto il contrario del dire “da una parte c’è la politica, dall’altra la comunicazione”).
Ma perché i partiti ritornino a spiegare, cioè perché contribuiscano a darci una direzione, c’è bisogno che mettano il capire come loro primo obiettivo. Forse c’è bisogno che mettano a fuoco le loro ideologie implicite, che le confrontino con la complessità delle cose, o che di quella complessità sappiano trarre ipotesi e domande.
I partiti imparino. Approfittino di quest’anno e mezzo “tecnico”, di questa fase meno anomala, e si dispongano a imparare. Perché questa società ha voglia e necessità di imparare. E se i partiti sono specchio della società, è proprio mostrando di voler imparare che svolgeranno senza contraddizione e senza ambiguità quel ruolo pedagogico che adesso ci serve.