Come l’ottimismo ha mangiato la fiducia
La parola e il concetto di “fiducia” sono tornati in auge nel dibattito di queste settimane, sia nell’opposizione che nella maggioranza: fiducia (o mancanza di fiducia) nelle possibilità del paese, nelle sua capacità di uscire dalla crisi, di pagare i suoi debiti, di reagire. Peccato che all’inizio della crisi, anni fa, il governo, e il presidente del consiglio in particolare, non accettassero altra parola che “ottimismo”, uno psicologismo passepartout che avrebbe annullato le crisi, avrebbe fatto “risvegliare l’Abruzzo incredulo”, avrebbe fatto crescere il PIL. Chi non parlava di ottimismo remava contro, naturalmente. Due o tre anni fa proposi una veloce riflessione proprio sul differente statuto tra il volatile e in quella fase pericoloso “ottimismo” e la nozione, concreta, storicamente ricca, di “fiducia” e su come l’ottimismo mal riposto possa minare la fiducia. Ripropongo di seguito quel breve post, che mi sembra a posteriori ancora utile, anche ora che tutti parlano di fiducia (e la fiducia sembra essere stata minata proprio dal linguaggio dell’ottimismo di quell’esecutivo).
Certo che rispetto all’ottimismo invocato da Berlusconi come atteggiamento contro la crisi, è meglio essere ottimisti che non esserlo, ma la parola-chiave in realtà è un’altra, fiducia. L’ottimismo in nessun caso può essere organizzato in proposta politica e articolarsi in soluzioni, la fiducia sì. La storia della fiducia è molto lunga e interessante e ricca di ambivalenze. I medievali usavano la parola fides per indicare sia la fede che la fiducia. È da loro che è entrata nel linguaggio dell’economia. Perché ogni scambio economico deve essere pervaso dalla fiducia nelle azioni degli altri, presuppone una fede, nella bontà del prodotto, ad esempio, nella correttezza della transazione, nel mantenimento degli accordi presi. Nel prestito, parlo sempre delle origini delle teorie economiche europee, cioè il medioevo, il finanziatore deve avere fede nella buona riuscita del mercante, che si sobbarca viaggi rischiosi e che non potrà rifondere il debito con gli interessi in caso di morte o di rapina. Per questo ci si comincia ad assicurare, per rendere la fede più certa, e trasformarla in fiducia nell’impresa, in sistema di fiducia.
Con la nascita di un primo sistema finanziario la fiducia deve valutare anche il risicum, il rischio, con la sua dose di aleatorietà. Un caso famoso di fiducia mal riposta è quello che si verifica alla metà del XIV secolo, quando un re (inglese se non sbaglio, cito a memoria dalle cronache medievali del tempo), impegnato in una guerra, chiese un prestito altissimo ai banchieri di Firenze, che impossibilitati a investire individualmente tanto denaro si organizzarono in una sorta di cordata, alla quale parteciparono pure piccoli proprietari che impegnarono anche i terreni agricoli per poter investire in un modo così apparentemente sicuro. Purtroppo il re inglese andò in bancarotta e le garanzie fornite si rivelarono insufficienti a rifondere i banchieri, che fallirono tutti, compresi i piccoli proprietari che rimasero senza terreni. Fu la prima crisi finanziaria, con effetti sull'”economia reale”, che io conosca, e il primo crollo di fiducia. Ci vollero 50 anni per raggiungere di nuovo il livello precedente (e avvenne anche grazie a un cambio di regole e di quadro giuridico).
“Fiducia” è nozione che esige azioni concrete, un quadro giuridico certo, regole efficaci. Cioè richiede le condizioni perchè ci si possa fidare e quindi non è un sentimento, uno psicologismo, ma un criterio da adottare in ogni politica. Continuare a parlare di ottimismo, inteso addirittura con venature “fideistiche”, queste sì, può addirittura avere l’effetto opposto, cioè convincere che non ci si può “fidare”, che non ci sono in cantiere soluzioni e che ci si ferma alle chiacchiere. La fiducia vuole vedere, l’ottimismo a volte nasconde.