Lucano e Pinocchio
La condanna a 13 anni e 2 mesi di carcere dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano segna la fine dell’alleanza trentennale tra sinistra e magistratura in Italia. Da un punto di vista culturale e simbolico è una sentenza che traccia una linea tra il prima e il poi, e che mette fine a un’anomalia storica. Qualche giornale – “Libero”, “La Verità”, “Il Fatto”, “il manifesto”, o tutti insieme – non resisterà alla tentazione di titolare “Amaro Lucano” e per una volta il giochino di parole offrirà una sintesi veritiera nel descrivere il sentimento di amarezza misto a stupore che stanno provando molti a sinistra. Dopo trent’anni di alleanza oggettiva con il potere dello Stato che le indagini le autorizza e le sentenze le scrive – e dopo trent’anni di opposizione a chi da questo potere si difende e che questo potere contesta, indipendentemente dalle colpe e dai conflitti d’interesse – affermare che questa condanna è politica risulta purtroppo molto meno credibile.
I fatti nella sostanza sono chiari. Basta avere seguito la vicenda, o anche solo leggerne il riassunto sul Post, per essere d’accordo sul fatto che a Riace la gestione dei migranti, dei loro sbarchi-permessi-affitti-documenti-lavori-matrimoni-amori è stata disinvolta, e che lo è stata probabilmente dall’inizio. Ma basta anche una conoscenza vaga degli anni di carcere decisi dai giudici in altri processi per affermare che 13 anni e due mesi per Lucano sono uno scandalo, una pena abnorme, incongrua rispetto alle condanne comminate per altri reati: rapine, rapimenti – il tesoriere dei rapitori di Cesare Casella prese 12 anni e quattro mesi – stupri singoli e di gruppo, traffico internazionale di stupefacenti, associazione mafiosa o terroristica, omicidi o stragi (per non parlare dell’evasione fiscale). Bastano per affermare, cioè, che la discrezionalità della magistratura nel tradurre in anni colpe e mancanze – una discrezionalità su cui ha un peso l’epoca storica, l’atmosfera politica e le circostanze minute – può trasformare di fatto la legge in politica, o in simpatia o antipatia personale, e retrocedere ancora una volta lo stato di diritto all’arbitrio di chi può esercitare un potere.
Ma soprattutto: basta avere incontrato una volta Mimmo Lucano, e avergli parlato, averlo guardato, per avere la certezza che a muoverlo non è stata la ricchezza, la politica o la gloria, ma l’esaltazione di servire una legge più grande, quella dell’uguaglianza e del diritto alla dignità di ogni essere umano (legge che per fortuna in Italia è affermata dalla Costituzione). Quando l’ho conosciuto, per l’unica volta nella mia vita ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a una specie di mistico fuori dal tempo e dalla storia – uno strampalato santo come potevano trovarsene nel Medioevo o in Palestina, sotto i romani – un uomo che, dopo avere sognato navi cariche di uomini e donne e bambini arrivare dal mare, se le è viste arrivare davvero, e si è dato da fare per chi sbarcava, si è fatto venire idee ed energie e se ne è innamorato, e in questa sua febbre fuori dal tempo e dalla politica, sapendo di agire per un bene più grande – bene in cui, comunque, è mischiata sempre anche la vanità personale – ha deciso di prendere una scorciatoia e poi due e poi dieci, fino a convincersi per metodo, urgenza e convenienza che le scorciatoie fossero l’unico modo per risolvere i problemi reali, per far funzionare lo Stato e per aiutare le persone. Non so se sia stato delirio di onnipotenza o pragmatismo. E so che la sensazione di trovarsi un santo davanti non è stata tranquillizzante né piacevole. So che la potenza simbolica di Lucano ripete quella di Antigone, che decide di seppellire il fratello contro la volontà della città, perché sa che la legge della sepoltura, quindi della pietà, è sempre più alta della legge storica degli uomini. Per fortuna ci sarà un appello: trasgredire la legge per idealismo non può essere un’attenuante, ma neppure un’aggravante.
La storia tristissima di Mimmo Lucano dice lo stesso: racconta che le leggi degli uomini sono necessariamente approssimative, sempre imperfette e a volte ipocrite, e che i giudici non sono divinità a cui aggrapparsi, o armi da usare per abbattere gli avversari. Sono esseri umani pieni di interessi e passioni, miserie e grandezze, che maneggiano leggi in conflitto tra loro, decretano quantità discrezionali, e modellano principi in base all’interesse o a fattori momentanei. Davanti alla giustizia tutti assomigliamo a Pinocchio davanti al giudice gorilla, che risponde alla denuncia del burattino con queste parole: “Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione”. Ma a un certo punto la sinistra lo ha dimenticato.
Con la condanna di Mimmo Lucano l’alleanza storica tra sinistra e magistratura italiana si scontra, finalmente, contro la sua colpa più grave: l’avere accettato per pigrizia e convenienza politica che i giudici, basandosi sui codici, possano esaurire e ridurre in sentenze (e anni di galera) il dolore, le umiliazioni, le passioni, le avidità, i narcisismi, le mancanze inevitabili, ma anche le generosità con cui gli esseri umani abitano il mondo. La colpa più grave della sinistra – che in Italia, per cinquant’anni ha detenuto la cosiddetta egemonia culturale – è avere affidato ai magistrati, facendo girotondi, non soltanto la politica, ma anche la morale, cioè la possibilità di decidere chi sono i buoni e i cattivi.