Le impronte mancanti
C’è una frase a cui continuo a ripensare: «L’analisi delle impronte di mani che compaiono accanto alle raffigurazioni animali in alcune grotte della Francia e della Spagna hanno rivelato che la maggior parte dei disegni è opera di donne». Lo sostiene Caroline Criado Perez in Invisibili, basandosi su uno studio del 2013 dell’archeologo Dean Snow della Pennsylvania State University. Se è così – ed è molto probabile che sia così – significa che non è soltanto la realtà in cui viviamo – il modo in cui sono stati organizzati i trasporti, i bagni pubblici, le stanze, gli stipendi – a essere costruita dai maschi a beneficio dei maschi, ma che la metà della bellezza prodotta dall’umanità nel corso della sua storia è andata perduta per tutti. Non solo per le donne. I vincitori, in questo caso gli umani maschi, hanno costruito nei millenni lo specchio in cui l’umanità guarda se stessa. È come se tutti fossimo stati costretti a guardare il mondo tenendo una benda su un occhio o soffrissimo di una di quelle rare malattie neurologiche che fanno vedere soltanto un lato delle cose.
Cuevas de las Manos, Provincia di Santa Cruz, Argentina. Le impronte risalgono a un periodo compreso tra i 9 e i 13mila anni fa.
La frase di Caroline Criado Perez mi è tornata in mente leggendo Oggi faccio azzurro, l’ultimo romanzo di Daria Bignardi, il suo più felice e spiritoso nonostante racconti il dolore di un amore finito. La storia è quella di una donna lasciata che non riesce ad accettare l’abbandono e incontra, andando dalla psicologa, una deliziosa ragazzina depressa e un coetaneo erotomane. L’invenzione letteraria su cui il romanzo si regge, invece, quella intorno a cui ruota e che lo trasforma in qualcosa di più di un resoconto in prima persona della fine di un amore è la «Voce», che appare a pagina 1 e continua imperterrita per tutto il libro a fare incursioni nei pensieri della protagonista: «”Buttaci lui dal balcone” spunta la Voce quando resto troppe ore sul divano a osservare la magnolia grandiflora del cortile. “Anche io volevo morire quando Vasilij se n’è andato. Non posso pensare che cent’anni dopo siamo ancora messe così”».
Vasilij è Vasilij Kandinsky, il grande pittore e teorico dell’arte fondatore dell’astrattismo. La voce è quella di Gabriele Münter, grande pittrice e grande amore di Kandinsky, resa “invisibile” o quasi dal genio e dall’egocentrismo dell’amante, oltre che da un sistema politico culturale e artistico dominato dai maschi. Il dialogo tra Galla, la protagonista, e Gabriele tesse clandestinamente e con leggerezza, spesso con umorismo, un discorso sul maschilismo come sistema culturale, su un maschilismo interiorizzato – da tutti, anche dalle donne – che non si gioca sul piano della rivendicazione, ma delle relazioni, quelle vissute davvero e quelle introiettate. Non è questione di vittime e carnefici, ma di come un sistema oggettivo possa diventare soggettivo fino a coincidere con l’identità di ognuno di noi, fino a decretare l’impossibilità di esistere come persone uguali, indipendentemente dal sesso a cui si appartiene. Una mossa letteraria che riesce a spostare lo specchio e ad allargare il suo riflesso alla metà invisibile, e che permette di vedere, raccontare e ascoltare una storia finalmente umana. Il femminismo interiore che scorre nel libro evita con cura di accusare per assolversi o di dare risposte in modo da lasciare libere le domande, la prima delle quali è se la questione di genere possa evitare di partire – o arrivare – dall’amore.