Giorello alla Statale
I professori di filosofia in quegli anni alla Statale di Milano camminavano fuori tempo. Alla fine degli anni Ottanta i corsi erano così affollati che dopo un po’ preferivi (almeno io) non andare a lezione. Le sessioni di esame erano diventate un rito industriale a cui studenti e docenti (a volte) si aggrappavano con le unghie, nel poco tempo a disposizione, per parlare di quello che amavano e avevano studiato. Gli incontri si consumavano lì, almeno per me, nei venti minuti in cui decine di chili di libri si trasformavano in parole.
Era difficile fare amicizia con altri studenti perché ti incontravi e perdevi nei piani di studio liberalizzati. Almeno a me andò così. Mi sembrava di studiare per corrispondenza, però sapevo che studiavo meraviglie. C’era Franco Fergnani che camminava rasente ai muri ossessionato da Sartre, e di cui si raccontava che fosse stato torturato durante la Resistenza; Alfredo Marini, filosofia moderna e contemporanea, cercava di ricavare bellezza anche dall’Autoaffermazione dell’Università tedesca, la prolusione con cui accettando il rettorato dell’Università di Friburgo, Heidegger aderì al nazismo parlando di φύσις e Ursprung. C’erano i logici – Corrado Mangione ed Edoardo Ballo – che insegnavano Gödel e Frege, e c’era Luciano Parinetto, esperto di streghe e Inquisizione, che terminò un suo corso dichiarando: «E ricordatelo, sempre, ragazzi, la rivoluzione passa dal buco del culo del diavolo». Laura Boella parlava di Hannah Arendt, Walter Benjamin, Gershom Scholem ed Ernst Bloch; Gabriele Scaramuzza di Kafka; Carlo Sini, che ancora per molti anni avrebbe insegnato teoretica, lasciava agli studenti dispense scritte e disegnate a mano da fotocopiare in segreteria. A me capitò quella, magnifica, sul Tractatus di Wittgenstein.
Era la fine del Novecento, la filosofia contava ancora qualcosa, certo: sempre meno, ma avevi la sensazione di appartenere a una tradizione che risaliva a Spinoza, Hegel, Marx, e che stava per essere inghiottita dal capitalismo, dalla pubblicità e dalla società di massa. Garantire giustamente a ognuno il diritto di studiare toglieva a ognuno qualcosa. L’unico al passo con i tempi, la star che affascinava le matricole e gli ambiziosi con i suoi corsi su Hölderlin e Trakl, Wagner e Nietzsche, Proust e Baudelaire, era Stefano Zecchi, che tutte le sere lo vedevi al Maurizio Costanzo Show, quando Sgarbi non c’era. Molti ne rimanevano ammaliati, altri, come me, ne diffidavano perché spesso a lezione indossava una foulard di seta nero annodato come una cravatta da dandy di fine Ottocento. E infatti qualcuno aveva inciso con una chiave sulle pareti dell’ascensore d’acciaio del dipartimento: «Zecchi assomiglia a Paperoga».
L’idea, per noi dispersi, era comunque che la filosofia fosse ancora un metodo per capire il mondo, per imparare a distinguere il bene dal male, a pensare, a studiare, a guardare. Sentivamo il privilegio di poterci affacciare sulla ragione, che alla fine del Novecento ci appariva ancora, svanendo, la legge della storia e degli uomini. Tra le macerie che si accumulavano nel tramonto dell’illuminismo e nel crollo del comunismo, si continuava a credere che il pensiero fosse più forte della fede e la verità più potente dell’opinione. Le scuole, però, non c’erano più: non c’era più Marx che sbiadiva, come tanti altri: Freud, Sartre, Adorno. Ma in questa evanescenza, brillavano. Il pensiero sgranocchiava se stesso, ma lo faceva godendo. Ci si attaccava a questo o all’altro, a seconda degli esami, prendendo da ognuno qualcosa, con un istinto al sincretismo che forse per sopravvivere si era reincarnato – ma non lo sapevamo ancora – nel consumismo. I professori apparivano maestri sciroccati e senza discepoli perché i discepoli erano una massa in cui era impossibile scegliere. Maestri orfani ma liberati dal peso dei loro maestri e della loro ideologia (Geymonat e Paci, su tutti) che per questo trasmettevano contemporaneamente un senso di sfacelo e di libertà alla deriva.
In questo universo esploso, in cui seguendo la superstizione crociana l’umanesimo appariva ancora a molti superiore per diritto di nascita al pensiero scientifico, arrivava Giulio Giorello, che aveva sempre mille assistenti e seminari, e non si capiva di cosa parlasse perché parlando inseguiva farfalle, associava l’abate Berkeley a Topolino, incollava la meccanica quantistica alle rivolte irlandesi o a John Wayne, come se tutto – l’abate Berkeley e il suo albero che nessuno vede, Topolino, il gatto di Schrödinger e il gatto Silvestro, Giordano Bruno e John Wayne – fossero oggetti meravigliosi ammassati nel baule della storia e della cultura, con cui giocare e da accostare, mischiare, pesare, pensare, per divertirsi anche, per il piacere di tirarli fuori perfino, e guardarli, perché stavano bene insieme come vestiti, come sassi su una spiaggia o biglie colorate, senza preoccuparsi del rigore, ma sapendo che quel gioco lì – per farlo bene, per poterlo fare davvero – richiedeva studio e fatica, esercizio e passione, e doveva ruotare e crearsi intorno ad alcune idee fisse che ancora oggi non saprei come altro definire se non valori: la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la verità, le bellezza e la ragione. Ascoltando Giulio Giorello – il suo nome buffo, i suoi occhiali spessi e i suoi farfuglii – chi voleva capire capiva che l’importante non sarebbe mai stata la verità di un’ideologia, ma il piacere di una scoperta: che il piacere dell’intelligenza è la sola spinta che ti può fare capire le cose, per un istante, prima che la realtà si rifranga di nuovo in un cumulo di macerie insensate. Quel gioco era l’unica strada possibile, l’unico spiraglio ancora libero per chi volesse ancora provare a pensare. Tra cielo e terra non esisteva nulla, per quanto insulso apparisse, da non meritare curiosità.