Chi era Rino
Rino Anelli lo riconoscevi dai baffi arrotolati e ottocenteschi. Faceva il giardiniere e parlava quasi solo in dialetto delle colline di Parma. Arrivava su un piccolo fuoristrada rosso e si metteva al lavoro in maglietta e calzoncini, spesso solo i calzoncini, rossi quasi sempre. Ogni tanto trovavi un ceppo che aveva trasformato in una poltroncina per i bambini, oppure un ramo tagliato in due per assomigliare alla testa di un capriolo. Nel suo modo di lavorare sui fiori o di potare una pianta c’era la forza di un lupo, ma anche qualcosa dell’ape e della farfalla. Arrivava alle feste con grandi pentoloni da cui faceva uscire torta fritta a quintali, concedendosi il piacere che qualche pezzo fosse a forma di falce e martello.
Era un uomo gentile e diffidente, a cui piaceva ridere, far ridere e lavorare, e che non dimenticava mai da dove arrivava. A volte raccontava una barzelletta in dialetto o una storia che aveva vissuto. La sua era una famiglia di mezzadri di un’altra valle. Fino agli anni Sessanta le stagioni del lavoro contadino finivano l’11 novembre, giorno di San Martino che chiamavano estate anche se quasi sempre era inverno. Se il padrone non ti voleva più, prendevi le tue cose, la famiglia e gli animali e ti spostavi in un’altra valle a cercare la terra di un altro padrone.
Rino raccontava di quando a quattordici anni, in un giorno di San Martino freddissimo, caricarono il viol, un carro a due ruote trainato da una vacca, con i materassi, le sedie, il tavolo e un gabbia con l’anatra, l’unica bestia che avevano e che, ogni tanto, faceva un uovo per loro. Arrivarono nella casa di una stanza dove avrebbero vissuto che era già notte, ma scaricando la gabbia cadde e l’anatra volò via nella nebbia, oltre gli alberi. La famiglia mangiò un po’ di pane e formaggio e andò a dormire sui materassi buttati per terra, ma quando al mattino aprirono la porta, l’anatra era lì ad aspettarli.
Gli piaceva molto raccontare anche di quando, molti anni dopo, lavorava nel giardino di un poeta che un mattino si era svegliato di umore bucolico, lo aveva raggiunto in vestaglia davanti all’aiuola su cui Rino lavorava da ore, si era stirato e, respirando a pieni polmoni, si era messo a declamare la magnificenza dell’odore del sisso, il letame con cui i campi erano stati concimati. Rino con calma lo aveva lasciato finire e gli aveva detto, senza alzarsi: «C’al guärda, sior dotor, c’le dré pistär la fogna c’la s’è rota» («Guardi, dottore, che ha messo i piedi dentro la fogna che si è rotta»). Raccontava, ridendo come un matto, che il poeta era corso in casa chiamando inorridito la moglie.
La sua identità coincideva con la storia del comunismo contadino in Italia. Per quarant’anni ha cucinato torta fritta alle feste dell’Unità, poi ha trasferito la sua competenza a quelle di Rifondazione comunista finché sono esistite. Quando il prete è andato a trovarlo per l’estrema unzione, Rino gli ha detto: «C’al faga lu, don Enso, mi an son mia pratic» («Faccia lei, don Enzo, io non sono pratico»).