Che cos’è la satira (per me)
Questo è il discorsetto che proverò a fare domani, sabato 13 luglio 2019, a Forte dei Marmi per la consegna del Premio Satira al Censimento dei radical chic, che nacque un anno fa proprio con un blog sul Post.
Da quando ho saputo che avrei vinto il Premio Satira di Forte dei Marmi continuo a immaginare i miei predecessori – Cesare Zavattini, Achille Campanile, Leonardo Sciascia – che si rivoltano nella tomba. Poi ho visto la giacca di Michele Serra, quando fu premiato ai tempi di Cuore, e ho pensato che non tutto in questo mondo è destinato a peggiorare. (Ma chissà come sembreremo vestiti noi tra vent’anni).
Vorrei utilizzare questa occasione per dire che cos’è la satira per me o almeno qual è la satira che mi piace. La satira per me non è sfottere le persone, nemmeno i politici, nemmeno i potenti, nemmeno quando se lo meritano, né uno per uno, né in blocco, in quanto categoria. La satira che mi piace non accusa e non si sente superiore a nessuno, neppure al ministro Toninelli.
Sono consapevole che questo tipo di satira esiste e trionfa. È l’idea corrente di satira, quella che vediamo in televisione e quella con cui si possono fondare partiti che vanno al potere. Credo, però, che questo tipo di satira si fondi su un senso di superiorità – che può essere morale, fisico o perfino razziale – e che vinca proprio perché genera questo consolante sentimento. È una satira che non rischia mai niente e non si mette mai in discussione, una satira vigliacca. È una satira che divide e crea fazioni, che prolifera nel tanti contro uno, e che non fa tremare il mondo, ma lo conferma. È una satira bulla perché il bullo, da sempre, anche a scuola, crea tribù sogghignanti.
Non è che non faccia ridere, la satira bulla. Fa ridere tantissimo. Ma la sua risata divide e conforta, illudendo chi ride di essere meglio di quello di cui sta ridendo. La sua è una risata facile e piena proprio perché cancella ogni dubbio su di sé ed espelle il male lontano. In questo senso penso che si possa dire che è un tipo di satira tranquillizzante, che non destabilizza, non genera dubbi ma certezze, e che non fa, insomma, quello che la satira dovrebbe fare o almeno tentare: mostrare la nuda realtà.
La satira, per me, dovrebbe provare a essere uno strumento di conoscenza, uno specchio sollevato davanti agli occhi di chi ascolta per costringerlo a guardare se stesso negli altri. Può essere perfida, perfino spietata, ma prima di tutto deve esserlo nei confronti di chi scrive e di chi legge. Si può ridere perché ci si sente diversi o perché ci si sente uguali. Si può ridere di sé oppure degli altri, dall’alto in basso oppure alla pari, sapendo che in basso, in fondo, ci stiamo tutti. Non solo Brunetta. Lo vedete quant’è facile, la satira bulla?
Questa risata è un riflesso che unisce, e non prepara la guerra. È un tipo di satira che abbiamo dimenticato, ma che esiste ancora, in clandestinità solo perché non ha un concetto a cui appoggiarsi. Autori come Altan, Corrado Guzzanti o Michele Serra, ma anche come Vincino e Mannelli, che pure usa l’invettiva, Makkox o Andrea Bozzo mostrano il ridicolo degli altri per mostrare il ridicolo di tutti, che siano potenti, operai, femministe, nani, ballerine, fascisti su Marte, studenti ripetenti. Mostrano che dentro ognuno di noi ci sono tutti gli altri – e a volte è imbarazzante – e che tutti ci assomigliamo almeno un pochino. Purtroppo.
Quando Jonathan Swift modestamente propose di mangiare i bambini poveri per sconfiggere la carestia in Irlanda, stava alzando uno specchio per mostrare che il cannibalismo e l’infanticidio erano del tutto coerenti con le premesse economiche e politiche condivise dalla maggioranza. E Voltaire non scrisse Candide soltanto per sfottere Leibniz e il suo ottimismo cosmico basato sull’idea del migliore dei mondi possibili. Lo scrisse, credo, per mostrare agli altri e soprattutto a se stesso che ci si può aggrappare a qualunque religione e filosofia, ma si rimane tutti comicamente mortali.
La satira che preferisco non fa sconti al potere, ma nemmeno a chi ride, perché chi ride ha sempre un potere. E non fa sconti agli intellettuali e nemmeno ai radical chic, anche se quando ho scritto il libro per cui mi avete premiato ero partito con l’idea di difenderli. La satira che preferisco combatte il potere, qualunque potere. Indica che il re è nudo, poveretto, perché è un omino che si crede di essere quello che di lui credono gli altri. Ma lo fa per mostrare che il re è come noi, ridicolo come noi, umano come noi. Che è un re soltanto perché noi – per paura, servilismo o comodità – desideriamo vederlo vestito.
Quando ridiamo del re, ridiamo sempre anche di noi.