Aristotele e Zuckerberg
Lo scandalo di Cambridge Analytica e le scuse di Mark Zuckerberg mi fanno venire in mente Aristotele, che nella Politica si raccomandava di tenere separate la piazza destinata alla politica da quella destinata al mercato: nei mercati le parole sono usate per vendere, e hanno di mira la persuasione, mentre nell’«agorà libera» sono usate per capire, e hanno di mira la verità. La confluenza tra questi due spazi è in atto da decenni, ma è culminata nei social network: oggi la piazza del mercato ha inglobato la piazza della politica, al punto che i due ambiti ormai sono, di fatto, indistinguibili. La sfera pubblica è diventata a tutti gli effetti pubblicitaria.
La politica è l’attività umana che dovrebbe armonizzare la vita individuale con quella sociale. Per questo si fonda sulla distinzione tra pubblico e privato. I mezzi di comunicazione di massa hanno corroso questo confine, che si era faticosamente formato con la modernità e ne aveva definito la struttura politica profonda. Nel 1961, ben prima che arrivassero Internet e Facebook, lo scrisse Jürgen Habermas in Storia e critica dell’opinione pubblica:
Nel frequentare insieme il cinema, nell’ascoltare in comune trasmissioni radiofoniche o televisive non resta più nulla del rapporto caratteristico della privatezza riferita al pubblico: la comunicazione del pubblico culturalmente critico dipendeva dalle letture che venivano compiute nel ritiro della sfera domestica privata.
Per Habermas il concetto stesso di «opinione pubblica», cioè l’entità che fonda politicamente l’era moderna, ha origine proprio dalla «sfera pubblica letteraria», cioè dall’esistenza di un pubblico di lettori, che Aldo Manuzio e Ludovico Ariosto furono tra i primi a intuire e cercare. Il consolidarsi di un pubblico fu, però, già da subito, la strada per la sua dissoluzione:
La sfera domestica (…) è invece divenuta oggi il varco attraverso il quale le forze sociali si riversano nell’area interna della piccola famiglia attraverso la dimensione pubblica del consumo culturale dei mass-mesia. Lo spazio intimo deprivatizzato viene svuotato pubblicisticamente, una pseudopubblicità privata di carattere letterario è ridotta a zona di confidenze per una specie di superfamiglia.
È una descrizione piuttosto precisa e profetica di quello che avviene oggi con i social network: «la dimensione pubblica del consumo culturale» si infiltra «nella sfera intima» svuotandola «pubblicisticamente» fino a ridurla una «zona di confidenze per una specie di superfamiglia».
C’è un corollario alle previsioni di Habermas, e questo corollario siamo noi. Lo Stato moderno si basa su un istinto, quasi una premonizione. Forse per difendersi dalla pervasività della sfera pubblica, la borghesia fece del pudore il proprio valore fondante. Se il Re Sole doveva esibire al popolo il proprio fasto e il proprio potere, i governanti moderni preferirono vestirsi di grigio, si nascosero in palazzi anonimi, cercarono l’ombra. Oggi la tattica del grigiore e dell’anonimato non funziona più, infatti i nuovi governanti, da Obama a Trump, sono sempre più sgargianti. Jürgen Habermas – che oggi ha 89 anni – non previde, e non poteva prevedere, che a cancellare il confine tra sfera intima e sfera pubblica, o meglio pubblicitaria, sarebbero stati gli stessi sudditi, saremmo stati noi.
Non immaginò la furia con cui, per essere guardati, avremmo demolito la sfera privata per condividerla sotto forma di spettacolo – esprimendo pubblicamente le nostre preferenze, postando le nostre foto e quelle dei nostri figli, come milioni di piccoli Leone Fedez-Ferragni, esibendoci in vacanza o davanti allo specchio, esprimendo opinioni su ogni questione, specialmente su quelle su cui avevamo pensato di meno. Essere ammirati e condivisi è un desiderio che riguarda tutti, più o meno. Nessuno è colpevole e la soluzione non c’è, e ovviamente non è ritirarsi nell’ombra e scappare da Facebook. Forse passa dal prendere atto che non ha senso scandalizzarsi se le nostre preferenze politiche pubbliche non ricevono un trattamento speciale da parte di chi cerca di convincerci ad acquistare qualcosa, che sia un frigorifero, un libro o una posizione politica. La legislazione potrà disciplinare, sanzionare, perfino frenare, ma non sarà mai nelle condizioni di distinguere in maniera efficiente quello che non è distinto all’origine, almeno finché non elaboreremo una nuova cultura e una nuova pratica del pudore.
Lo scandalo dell’uso politico e propagandistico dei dati degli utenti di Facebook raccolti da Cambridge Analytica si basa, cioè, sulla credenza superstiziosa e autoassolutoria che esista ancora un confine tra la sfera pubblica e quella pubblicitaria, tra la piazza del mercato e quella della politica, sull’illusione che la differenza tra quello che consumiamo e quello che votiamo non possa essere cancellata dall’unico gesto del like, che è così potente da mettere sullo stesso piano – come su un bancone del mercato – giornali, app di car sharing, partiti politici, squadre di calcio, petizioni ecologiche o per i diritti umani, ciclisti dilettanti, canzoni, video di comici cinesi, viaggi in Patagonia, ditte che consegnano frutta biologica e marche di jeans. Cambridge Analytica dimostra che tutto questo è già avvenuto, e per questo fa scandalo.