Chi era Pietro Cheli
Pietro Cheli è morto nel suo letto a Milano all’alba di lunedì 5 novembre 2017, mentre fuori pioveva. A sua moglie Alba Solaro ha fatto in tempo a dire: «Sto bene». Non era vero, ma forse non lo sapeva. Era nato a Genova nel 1965, aveva 52 anni, e ripeteva spesso che sarebbe morto presto. Tifava Genoa. Era un giornalista culturale, nel senso che per tutta la vita si è occupato di libri, leggendoli, scrivendone, parlandone alle presentazioni, alla radio, in tv e curando le pagine culturali dei giornali dove ha lavorato: prima Il Giornale e La Voce con Montanelli, poi Glamour, Diario con Enrico Deaglio e infine Amica, di cui era diventato vicedirettore. È stato un grandissimo uomo-macchina: per chiudere un giornale in tempo era in grado di macinare quantità incredibili di pagine con una concentrazione e un’attenzione che lo facevano sembrare agile, quasi leggero. Era un uomo ingombrante e debordante, pieno di entusiasmi e antipatie, generoso e dispettoso, che utilizzava il suo corpo – la pancia, soprattutto, ma anche le mani – come un linguaggio con cui interessare gli sconosciuti, intimidire gli avversari e accogliere gli amici. All’apparenza sembrava l’uomo meno timido del mondo, una specie di tenore della cultura, in realtà lottava con il dubbio se avvicinarsi o tenersi a distanza. Si nascondeva e manifestava attraverso il personaggio che aveva costruito. Il suo modo di nascondersi era occupare tutto quanto lo spazio. Dopo averlo conosciuto Luis Sepúlveda lo inserì in un suo libro, battezzando Pietro Cheli un «corpulento ispettore che i colleghi della squadra omicidi avevano soprannominato il Bambino di Brooklyn». Anche quando parlava male o spettegolava di qualcuno – e lo faceva spesso, soprattutto di quelli che riteneva avessero usurpato una posizione superiore ai loro meriti reali – la sua prospettiva era quella della delusione e del divertimento per la commedia umana, non della rabbia. Non era capace di liberarsi dei seccatori e dei bisognosi, perché sapeva che i seccatori e i bisognosi hanno quasi sempre storie da raccontare, ma anche perché – credo – non voleva ferirli.
Era elegante (rideva ancora, a distanza di anni, di un articolo uscito su un quotidiano di Genova in cui si diceva di lui che aveva «l’eleganza dei Finollo», che è un vecchio negozio di cravatte e camicie su misura frequentato dall’alta borghesia genovese). Era molto spiritoso, ma poteva fare male, e sapeva proteggere. Delle persone che gli piacevano sapeva isolare un momento, un gesto, e descriverlo davanti a loro, davanti a tutti, per sfotterli e renderli mitici, più grandi di quello che avrebbero creduto di essere. Dentro di lui intuivi qualcosa di fragile. Nel suo letto, da morto, era elegante e rotondo, circondato dai libri, serafico, la grande bambola di un adolescente addormentato e pacifico.