La crocifissione di suor Irina
Questo articolo è un’inchiesta che scrissi per Diario nel luglio 2005. Racconta la vita e la morte di una suora di vent’anni crocefissa e sottoposta a un esorcismo in uno sperduto monastero del nord della Romania. Mi fa piacere che la storia di Irina continui a essere pubblica perché ogni tanto ci ripenso, soprattutto d’estate, forse per ricordarmi che a poche ore d’aereo dalle nostre vite continuano a esistere epoche molto più lontane e che il presente è una questione di prospettiva.
Diario della settimana, n. 27, 8 luglio 2005
La bambina gioca con i piedi di suo padre che pendono da una trave. Ion Cornici si è impiccato in casa dopo l’ennesima lite con la moglie Elena Antohi. Deve passare quattro anni in carcere per un furto di galline e l’idea gli è insopportabile. Il fratellino, di qualche anno più grande, aspetta alla finestra che torni qualcuno. Il bambino si chiama Vasile, la bambina Maricica Irina Cornici, l’anno è il 1982, il luogo Jana, un villaggio nella contea di Vaslui, una delle zone più povere della Romania. La scena che la polizia si trova davanti spinge gli assistenti sociali ad affidare i due bambini all’orfanotrofio Casa de copii, la Casa del bambino di Barlad, la città più vicina. Ventitré anni dopo, Irina avrebbe attirato l’attenzione del mondo per un’altra tragedia. È lei la suora di 23 anni incatenata per giorni a una croce senza cibo né acqua per essere liberata dal diavolo, in un remoto monastero ortodosso della Moldova romena.
La fotografia che ha raccontato la sua morte (e che vedete in copertina) è bella e terribile. La ragazza è nella bara, dodici candele rischiarano la scena e i volti delle consorelle assediano il cadavere. È un dipinto di Caravaggio fissato su pellicola in un giorno di giugno del 2005, un’immagine che possiede una strana geometria di sguardi, un ritmo esatto di teste e posture. È una specie di congiura espressiva che indica il vero centro dell’attenzione fuori campo, non nel cadavere di Irina, ma in padre Daniel (Petru Corogeanu all’anagrafe) che sta sulla destra, fuori dall’inquadratura, un uomo di 29 anni reso più maturo e mistico da una foltissima barba infuocata. Una scena che rappresenta uno sbadiglio del Medioevo nel cuore dell’Europa postindustriale.
Per cercare di capire in che modo una storia che affonda i piedi nel passato dell’Occidente possa intrecciarsi al presente siamo andati in Romania, siamo stati nell’orfanotrofio dove Irina e suo fratello Vasile sono cresciuti, abbiamo visitato la tomba dove è seppellita e il monastero dove è stata uccisa, l’ospedale dove non è stata curata, abbiamo ascoltato sua madre piangere e raccontare, e le maledizioni lanciate dalle donne del paese dove d’estate Irina trascorreva le vacanze.
Il binocolo di Dio. Sotto questo cielo color Vergine Maria, i campi di mais e i filari di vite sembrano più verdi e i boschi più bui. Il monastero è di pietra chiara, il tetto spiovente di zinco sembra d’argento sotto la luce del sole. Per raggiungere il monastir Sfanta Treime, il monastero della Santa Trinità, di Tanacu devi cercarlo e avere fortuna, abbandonare l’unica strada asfaltata che attraversa il Paese da nord a sud, lasciarti alle spalle Vaslui, la misera capitale della più povera contea di Romania, e avventurarti verso est su una strada sterrata. Sul ciglio la gente raccoglie ciliegie dagli alberi, c’è qualche pecora, oche e carri trainati da cavalli. Nessuno lavora oggi, i campi sono deserti. È il 29 giugno, festa di San Petru, che per la religiosità ortodossa è ancora più sacra che in Italia. Un cartello dà il benvenuto a Tanacu, un centro di meno di mille abitanti, qualche centinaio di case e baracche disseminate sulla strada.
Imbocchi un viottolo che sale tra le colline e ti lasci alle spalle il paese attento a evitare le ferite profonde incise nella terra dalle ruote dei carri ancora trainati dagli animali. Dopo alcuni chilometri, al limitare di un bosco, si incontra una croce bianca piantata in un prato, la stradina continua in discesa, esce dal bosco e risale. In cima alla collina, il monastero appare in lontananza. Distingui le sagome di alcune persone che aspettano i visitatori armate di binocolo, un piccolo, ridicolo, esercito di volontari, pronto ad avvistare gli intrusi e a difendere il luogo santo, orfano di padre Daniel e delle quattro monache che qualche giorno fa la polizia ha arrestato. Rischiano fino a 25 anni di carcere per omicidio e sequestro di persona.
L’arrivo è concitato. Ci supera e sparisce nel nulla una monovolume verde guidata da un uomo vestito come un monaco e che, ricostruiremo in seguito, è Florin Georgescu, un industriale tessile di Vaslui che dopo il 1989 e la caduta di Ceausescu ha iniziato a vestirsi di nero e ha reclutato Corogeanu per costruire e guidare il monastero. Un altro monaco più giovane, alto, magro, più bello di un santo bizantino, compare all’improvviso, e all’improvviso scompare, dietro la palizzata di legno verniciato di bianco che circonda gli edifici. Una casa di legno marrone scuro ospita le monache. Quando vede la macchina fotografica, il monaco impreca e maledice. All’entrata ci aspettano altri tre uomini, un vecchio contadino, un ragazzo, Gabriel, che indossa una maglietta della Nike e sembra uscito da un meeting di Rimini – ci dirà poi che è un fan di Silvester Stallone e Arnold Schwarzenegger e che naviga in internet (ma solo per vedere siti di monasteri e pellegrinaggi, dice) – e un ultimo ragazzo sui 25 anni piuttosto agitato che si rivelerà essere un altro ex orfano della Casa de copii di Barlad, un altro degli ex compagni di orfanotrofio di Irina che affollano questa storia.
«I giornalisti non hanno avuto rispetto», grida il vecchio, «alcuni fotografi hanno scavalcato e sono entrati fino alle celle delle monache. Noi siamo i volontari di padre Daniel, facciamo i turni per difendere il monastero da ogni profanatore». La trattativa è lunga. «Veniamo dall’Italia», spiega Mihaela, «per dare anche la vostra versione, ma se continuate a tacere saremo costretti a scrivere soltanto quello che dicono i vostri nemici». Piano piano si inizia a discutere, in piedi, sotto il sole, sempre separati dalla cancellata. Avrebbero fatto meglio a tacere. Una voce fuori campo, forse quella del giovane monaco, forse quella del misterioso finanziatore, interviene per mettere in guardia i volontari sulla presenza di diavolerie elettroniche come registratori o macchine fotografiche nascoste. L’ex compagno di Irina è il più esaltato di tutti. Per non farci entrare, corre a prendere un pesante tomo di dottrina, apre alcune pagine e legge, puntando il dito: «I cattolici romani stanno fuori. Nel 1054 l’albero del cristianesimo si divise in due rami, quello morto era il ramo romano». Grida: «Voi sostenete l’Immacolata concezione, leggete cosa c’è scritto qui: “Queste e altre sono le idiozie dei cattolici apostolici romani”». Chiediamo di padre Daniel. Tutti s’infervorano, non hanno dubbi. È un santo. Alle sue messe giungevano centinaia di fedeli da tutta la Romania, ha liberato decine di posseduti dal demonio, che esiste, è ovunque, e l’unico modo di sconfiggerlo passa attraverso l’esorcismo. Chiediamo di Irina e la risposta è incredibile.
«Irina non ha confessato tutto, capisci?», si infiamma l’ex compagno di orfanotrofio, «e se non dici tutto al tuo confessore, il diavolo può impossessarsi della tua anima. Io una volta che non avevo detto tutto a un prete, sono uscito dalla Chiesa e vedevo doppio. Padre Daniel si è subito accorto che Irina non aveva raccontato tutto. Capisci? Magari era lesbica, magari aveva abortito». Magari. È la stessa versione dei fatti che da giorni ripete in tv Vasile, il fratello di Irina. Vive ancora all’interno del monastero e il dubbio che sia l’invasato che ti sta parlando ti sfiora.
«Quando è arrivata stava bene», ha raccontato in televisione Vasile, «ma poi non la riconoscevo più. Il diavolo era entrato in lei perché non aveva detto tutto in confessione. Io ho deciso che rimanesse nel monastero perché era l’unico modo per guarirla. Non so perché Irina è morta, so solo che padre Daniel ha fatto tutto secondo le Sacre scritture».
Con questa gente, gente orgogliosa della sua t-shirt Nike, del suo berretto da baseball con la scritta «California, America», gente che vede i film di Schwarzenegger, non esiste terreno di comunicazione che non sia animale e istintivo. Da queste parti, prima di Voltaire, dovrebbe fare una capatina Aristotele. Ma mentre mi dico che è come essere nel 1200, ricevo un sms: «Benvenuto sulla rete Cosmorom! Vi auguriamo un piacevole sogiorno!». Il peccato di Irina non c’era, era il silenzio che il branco ha riempito. «Dopo che è stata male», continua il giovane fanatico, «Irina ha iniziato a imitare le persone e a urlare parolacce pornografiche nel luogo del Signore». Cerchi di fargliela ricordare bambina, all’orfanotrofio di Barlad, e lui si acquieta appena: «Era una bambina calma. Era brutta e poteva cercare l’attenzione dei maschi, ma io no, personalmente non l’ho mai vista con un uomo o commettere peccati, anche se so che alla Casa de copii ragazzi e ragazze si incontravano di nascosto. Il diavolo l’aveva presa e Dio l’ha liberata». Finalmente, dal nulla, come nel nulla era svanito, ricompare il giovane monaco bello come un santo.
Ha modi gentili, parla a voce bassa, dice cose agghiaccianti. «Conosco padre Daniel da cinque anni, sono un po’ più giovane di lui», inizia, «era un bravo prete. Venivano qui da lui da tutta la contea a sentire le sue messe. Quando ho saputo sono venuto, qui sono tutti disorientati». Domandiamo come si comporterebbero se arrivasse la polizia o i vertici della curia. Interviene l’orfano fanatico: «Non faremmo entrare neppure loro». Il monaco lo riprende: «È un momento in cui bisogna ascoltare, ma se l’episcopato dovesse davvero radere al suolo questo monastero allora dovrebbe distruggere tutti i monasteri di Romania perché gli esorcismi si praticano ovunque». Impercettibilmente sale di tono: «La gente non capisce che il diavolo esiste e che per combatterlo la medicina è inutile, occorrono la preghiera e i rituali, per tenere fermo un indemoniato non bastano venti persone ed è necessaria la croce». La verità è molto triste, il diavolo si annida nella paura, nell’ignoranza e nella solitudine degli esseri umani.
Irina, un difensore taciturno. Irina era una bambina tranquilla che parlava poco. Fino alla fine del liceo, i rapporti tra lei e il fratello Vasile, che invece era irrequieto, a volte aggressivo e spericolato, non erano molto stretti. Anche perché a sedici anni, Vasile aveva lasciato la Casa de copii per trasferirsi a Cuptoare, vicino a Caras Severin, nella zona di Timisoara sul confine occidentale del Paese. Era stato adottato insieme ad altri orfani dalla famiglia di Nistor Stolojescu che possedeva una fattoria e che, forse, aveva bisogno di manodopera. La sensazione è che il riavvicinamento dei due fratelli, avvenuto alle soglie dell’età adulta, sia stato determinato soprattutto dallo spaesamento e dalla paura di abbandonare l’ambiente protettivo dell’orfanotrofio di Barlad.
Chi l’ha conosciuta concorda nel ricordare una bambina piuttosto chiusa che piano piano, da ragazzina, si schiude e diventa socievole. Tutti concordano nel descriverla molto forte e stabile sul piano fisico e psicologico, mai malata, mai stanca, sempre disponibile. Amava giocare a calcio con i maschi, da difensore, e aveva una voce profonda, per alcuni inespressiva. Al liceo agricolo di Barlad, che frequenta con buoni risultati e che termina nei tempi giusti, sviluppa i gusti di una qualsiasi ragazzina d’Occidente della sua epoca: adora la cantante Celine Dion e ascolta la musica leggera romena. Nessuno ricorda un suo fidanzato o una cotta adolescenziale. La sua migliore amica è un’altra orfana, Paraschiva Anghel, la ragazza che era entrata per prima nel monastero di Tanacu e che Irina e il fratello Vasile sarebbero andate a trovare, per la prima volta, il 5 aprile 2005, appena tre mesi della morte della ragazza.
Alla fine del liceo, Irina aveva sostenuto con successo i test psicoattitudinali del ministero del Lavoro romeno ed era andata a fare la baby sitter in Germania. Lavora per una famiglia di medici di St. Oswald nella bassa Baviera con a due bambini in età prescolare. In Germania torna quattro volte per periodi di alcuni mesi, si integra bene, si fa delle amiche, è allegra e serena. Continua a giocare a pallone con i maschi indossando la maglia del Bayern di Monaco, adora mangiare mele e patate fritte e vedere in tv i film di Jacky Chan, una specie di Bruce Lee di Hong Kong. Risparmia su tutto in modo da mettere via i soldi per comprarsi una casa. A marzo, un mese prima di andare a Tanacu e decidere di farsi suora (sempre che l’abbia deciso e non vi sia stata costretta), Irina torna per l’ultima volta dalla Germania.
Sigrid Niemann, la sua datrice di lavoro tedesca, ha dichiarato: «Risparmiava sempre, non l’ho mai vista permettersi nemmeno un lecca lecca. Aveva messo da parte 4 mila euro per comprare un appartamento. Li aveva lasciati al padre adottivo a Caras Severin. L’ultima volta è stata da noi appena quattro mesi fa, negli ultimi anni qui aveva trovato una seconda patria. Sarebbe dovuta tornare in luglio, il visto e il permesso di lavoro erano pronti, ma tre mesi fa Irina è entrata in convento. Mi domando per quale motivo avrebbe dovuto farlo volontariamente. Era una ragazza allegra, rideva sempre e non ha mai parlato di farsi suora». I ricordi delle amiche sono dello stesso tenore.
In questo periodo, Irina e Vasile si sono già riavvicinati. Quando torna dalla Germania, la ragazza si trasferisce dalla famiglia che ha adottato il fratello. Da St. Oswald e da Cuptoare scrive alla madre naturale. Sono lettere brevi, semplici, di cortesia, che esprimono, se non altro, la volontà di tenere rapporti con la famiglia di origine. «Miei cari genitori», scrive il 24 settembre 2002, «vi prego di scusarmi di non avervi scritto per dirvi che sono già in Romania. Io e Vasile abbiamo chiesto alla famiglia Stolojescu se possiamo venire a trovarvi a Perieni e loro sono stati d’accordo. Forse possiamo arrivare a novembre, ma non lo sappiamo di preciso, ma verremo e verrà anche Vasile. Vasile è sano e sta bene. La famiglia è molto buona e ha aiutato Vasile e anche un altro ragazzo della sua età. … Vi auguro molta salute e che si realizzi tutto ciò che desiderate. Con affetto e rispetto, Irina». Il progetto di Irina è adulto. Comprare una casa in cui diventare grande. «Aveva già trovato una casa all’angolo della strada, qui, a Cuptoare», racconta il vicino degli Stolojescu, Ion Cracion, «aveva 4 mila euro risparmiati dalla Germania, gliene mancavano soltanto mille». È a questo punto che Irina e suo fratello Vasile incontrano il monastero e Petru Corogeanu, padre Daniel.
Il diavolo, i soldi e il capro espiatorio. «Io Irina l’ho vista la prima volta qui alla Casa de copii di Barlad che aveva tre anni», racconta Ionel Bratianu, 25 anni, un altro ragazzo cresciuto nell’orfanotrofio che, oggi, dopo essersi laureato, fa l’assistente sociale per bambini maltrattati nella stessa struttura. È un bell’edificio bianco, le finestre rosse, una piccola chiesa e un grande cortile di terra a cui fa ombra un albero vecchio e sano. Qualche ragazzino sugli scalini, altri giocano a volano in mezzo al cortile. Oggi la Casa de copii dell’epoca di Ceausescu è cambiata. La politica è cambiata. Non è più il tempo degli ospiti fissi: bambini e bambine passano di qui per essere affidati ad altre famiglie o ritornare alle famiglie d’origine sotto la tutela degli assistenti sociali. Anche qui, come ovunque in Romania, ci sono decine di cani senza collare, randagi accolti come orfani.
Mentre racconta, Bratianu sbadiglia, quasi a segnalare fisicamente la propria calma e il proprio distacco emotivo. Dopo essere tornato, da psicologo, nella struttura dove è cresciuto, si è procurato e ha letto i dossier dei suoi ex compagni di infanzia. «Irina, a differenza di Vasile, non ha mai mostrato grandi problemi», racconta. «Non direi che fosse molto credente, da piccola aveva paura di Dio. Solo verso i 17 anni ha iniziato a frequentare di più la Chiesa. L’ultima volta è venuta a trovarmi nel gennaio del 2005. Mi ha accennato all’idea di entrare in monastero, ma io l’ho sconsigliata, aveva 4 mila euro, poteva avere una casa. Mi ha salutato dicendo che ci avrebbe pensato bene».
L’arrivo di Vasile e Irina al monastero di Tanacu data 5 aprile 2005. Il 9, quattro giorni dopo, la ragazza ha una crisi nervosa e viene ricoverata all’ospedale della contea di Vaslui. La trattengono fino al 24 aprile, due settimane durante le quali né Vasile, né l’amica Paraschiva le fanno visita. Va a trovarla soltanto una delle quattro suore che in seguito sarebbero state arrestate con padre Daniel. La diagnosi con cui la dimettono è di «schizofrenia in fase incipiente», anche se alcune fonti dell’ospedale hanno parlato di leucemia. Le prescrivono lo psicofarmaco Ziprex. L’intero ciclo di cura costa 7 milioni di lei, circa 200 euro. Alcuni monaci partono per Cuptoare, dove risiede la famiglia adottiva di Vasile e dove Irina ha lasciato i suoi risparmi, che è distante almeno un giorno di automobile da Tanacu. Prelevano parte dei soldi e ritornano al monastero. Per oltre un mese Irina sta meglio, tanto che decide di andarsene, tornare a Cuptoare e al suo progetto adulto. Il divieto di padre Daniel è per lei un colpo durissimo.
«Non era preparata per il monastero e aveva una paura tremenda di perdere i suoi risparmi», sostiene Ionel Bratianu, lo psicologo. «Il divieto del prete ha aggravato quella che secondo me era una depressione molto forte». Il 9 giugno Irina ha una nuova crisi, mostra agitazione psicomotoria, urla parolacce e oscenità, è violenta e aggressiva. Forse sta cercando di liberarsi e partire, forse interpreta il ruolo dell’indemoniata che nel monastero le hanno marchiato addosso. «La mia ipotesi», spiega Bratianu, «è basata sui miei dialoghi con Vasile e Paraschiva. Nel monastero le hanno appiccicato l’etichetta di handicappata, di diversa, e Irina ha iniziato a comportarsi come tale». Un’ipotesi che ritorna nelle parole urlate dalle donne di Perieni, il villaggio dove vive Elena Antohi, la madre di Irina e Vasile. Sono parole in cui la verità si mischia alla leggenda e alla fantasia popolare. Raccontano di una monaca, Justina Gusa (ma il nome cambia di volta in volta), che si sarebbe presentata al funerale, unica del monastero insieme a Vasile, e che avrebbe raccontato di avere visto la ragazza in una cantina scavata nella terra, legata mani e piedi, a faccia in giù. Raccontano che Vasile abbia rimproverato sottovoce alla monaca: «Perché sei venuta qui e hai disubbidito al prete?». Raccontano. Ma in paese la tragedia di Irina in soli quindici giorni è diventata epica, mito.
Sicuramente, gli ultimi sono stati giorni di tortura. La ragazza viene legata, la bocca tappata da un asciugamano perché non urli oscenità, mentre il prete, la ventina di religiose e il composito gruppo di uomini che gravitano intorno al monastero dicono messa per cacciare il suo diavolo. Ogni tortura è preceduta da una richiesta di padre Daniel al fratello Vasile che puntualmente autorizza. Forse Irina è riuscita a liberarsi dai lacci che le stringono polsi, caviglie e il ventre. Il prete allora passa alle catene avvolte in asciugamani. In un’intervista ha negato con molti equilibrismi la crocifissione (anche se, dice, fa parte degli esorcismi previsti dalle Sacre scritture), ma ammette di avere incrociato due barelle, una per il corpo, l’altra per le braccia, in modo da immobilizzare la ragazza. Quando giunge all’ospedale di Vaslui, il 15 giugno, Irina Cornici è morta da 24 ore. La causa è arresto cardio circolatorio. Il prete commenta: «Gloria al Signore che l’ha liberata», «Il diavolo non si cura con le pillole». In pochi giorni, la sua storia e la sua fotografia fanno il giro della Romania e del mondo.
Le radici cristiane d’Europa. In Romania, dopo quarant’anni di ateismo di Stato, si assiste a un vero e proprio risveglio spirituale. Dal 1990, ha scritto Craig Smith sull’Herald Tribune, il numero dei monasteri è salito a 600, il triplo rispetto agli anni di Ceausescu, mentre i 2.800 monaci sono quadruplicati. Per sfruttare il trend positivo, o forse per la sua tradizionale lentezza, l’episcopato ortodosso non ha saputo governare il cambiamento. «Non c’è stata più nessuna selezione. La quantità ha rimpiazzato la qualità», ha dichiarato Dan Ciachir, un esperto di Chiesa ortodossa di Bucarest. «Si è perso il controllo», sintetizza il sociologo romeno Alfred Bulai.
Petru Corogeanu, padre Daniel, ha sfruttato questo risveglio e la lentezza del clero nel dare risposte e regole. Dopo avere fallito, dieci anni fa, a 19 anni, come calciatore a Vaslui e, poi, all’Università dello sport di Bucarest, Corogeanu si è buttato sulla religione, un settore in crescita. L’incontro con l’industriale di Florin Georgescu ha fatto il resto. «Corogeanu era un estremista», racconta Stefan Gusa, archimandrita del monastero di Stefan Cel Mare nel vicino villaggio di Movila lui Burcel. Continua: «Arrivò nel 1999, voleva diventare monaco. Se noi pregavamo un’ora, lui ne pregava tre, se noi digiunavamo un giorno, lui cinque. Noi andavamo a tagliare legna, ma lui si rifiutava. Diceva che bisognava solo pregare e aspettare l’intervento degli angeli». Nel 2003, Corogeanu si scontra con Corneliu Bardaleanu, il prelato che guida la diocesi di Ias da cui Tanacu dipende, respingendo come «innovazioni del XIX secolo» e «roba da massoni» il canone ecclesiale. Nonostante questo, fino al suo arresto, è rimasto al suo posto, a farsi adorare dalle monache, a incantare fedeli e a esorcizzare indemoniati. Un caso limite, determinato dal boom religioso seguito a decenni di dieta spirituale comunista che si è tinto, in generale, di elementi di religiosità sempre più arcaica, fanatica e semplificata. Un prodotto perfetto per soddisfare l’incertezza ideologica e materiale del postcomunismo.
Il fenomeno ovviamente si è concentrato nelle zone più povere del Paese. «Qui in Moldova il misticismo è la via più semplice per spiegare la propria povertà con la presenza del diavolo», spiega Ionel Bratianu dell’ex Casa de copii. Se a Bucarest la storia di Irina è stata accolta con scandalo, via via che ti avvicini all’epicentro del delitto hai la sensazione che l’incredulità e il dispiacere rubino il palcoscenico allo sdegno. Piangevano i contadini di Tanacu che abbiamo incontrato vestiti a festa nel giorno di San Petru. Piangevano perché il monastero lo hanno costruito con le loro mani soltanto cinque anni fa e non sopportano l’idea che venga raso al suolo. Erano frastornati dall’idea di perdere la loro unica guida spirituale. Ma piangevano anche per Irina, lontani dal fanatismo dei volontari. Scuotevano la testa e dicevano di non sapere, chiedevano di mandare via il prete, ma di non distruggere la chiesa, accusavano l’ospedale di avere dimesso una ragazza che non andava dimessa. Sono confuse e arrabbiate le donne di Perieni, il paese dove Irina è sepolta e dove vive sua madre: «Anche a Gesù hanno bagnato le labbra con l’aceto, a Irina non hanno dato neppure quello», dice una ragazza. «Il diavolo è quel prete criminale», incalza un’altra. «Volevano soltanto i suoi soldi», spiega una donna in costume tradizionale che ha una sorella a Roma. «Quelli non sono ortodossi, quelli sono cattolici di rito greco, sono uniati», accusa un’altra. «Ora noi abbiamo paura di andare in chiesa con questi preti», sintetizza una vecchia.
La reazione del clero è stata lenta. Pur avendo definito «abominevole» il delitto e avere isolato gli autori, l’episcopato non ha ancora emesso un comunicato ufficiale di condanna. L’esorcismo è molto diffuso e una presa di posizione ufficiale e senza ambiguità urterebbe la sensibilità di molti. Il patriarca di Romania, Teoctist, ha dichiarato: «Nei monasteri c’è bisogno di più disciplina. Siamo persone e possiamo sbagliare, ma abbiamo nella nostra Chiesa i mezzi per la salvezza e per correggere chi sbaglia». Un sinodo, previsto tra qualche giorno, introdurrà test psicologici obbligatori per chi vuole essere ordinato monaco.
L’infanzia del mondo. Perieni è una strada sterrata e una specie di piazza, una chiesa, un cimitero e una fila di case alte poco più di due metri. Elena Antohi, la madre di Irina e Vasile, vive qui. Qui Irina trascorreva le estati, la Pasqua e il Natale. Nel cimitero l’erba è alta e le croci non hanno foto. La tomba di Irina è come un pugno in faccia. Una montagna di terra e sassi e una croce di legno. Sulla croce c’è scritto soltanto «Sora Irina, N. 1981», sul tumulo un’unica corona di plastica «a ricordo perenne» firmata «Monastir Sfanta Treime». Il solo omaggio alla morta si deve ai suoi assassini che, evidentemente, hanno sostenuto le spese della sepoltura e del funerale che qui sarà ricordato per sempre.
Elena Antohi, la madre, è vestita di nero e passa le giornate seduta di fronte a casa. «Mi sono vergognata quando hanno scritto che ho abbandonato i miei figli», spiega e scoppia a piangere. Sembra una vecchia, ha poco più di quarant’anni. «Non so quanti anni ho, sono senza istruzione», si giustifica. Racconta la sua vita: dopo il suicidio del primo marito, si è risposata con Costica da cui ha avuto altri due figli, una bambina morta a un anno e Florin che oggi ne ha 11 e che a un certo punto sbuca fuori di casa tutto assonnato. È stato lui ad apprendere dalla tv la notizia della morte di Irina. «”Mamma, Irina è morta”, mi ha detto. Mi sono sentita male». Racconta che Irina non le aveva mai accennato all’intenzione di farsi suora e che quando Vasile è venuto al funerale teneva gli occhi bassi e non le ha rivolto la parola: «Vasile dice che è stato peccato non seppellirla nel monastero. Sono stata io a insistere per Perieni e lui non me l’ha perdonato». In casa, lontana dalle orecchie delle vicine, ci dice che oltre a Irina e Vasile, c’era un terzo figlio, Costel, che è stato adottato: «Non so niente di lui. Anch’io sono orfana». Chiede un aiuto e, congedandoci, ci invita a tornare in autunno a prendere il vino.
La sensazione di essere circondato da bambini non ti abbandona mai. A Bucarest, dove nelle strade del centro i maschi chiedono l’elemosina e le femmine si prostituiscono per pochi dollari. Al monastero e in orfanotrofio, luoghi i cui protagonisti si incrociano. Irina, Vasile, Paraschiva, il volontario fanatico, perfino Lionel Bratianu, il giovane e intelligente psicologo, fanno pensare a ragazzi incapaci di diventare grandi, che di fronte alla difficoltà del mondo cercano disperatamente certezze e istituzioni sociali sicure. Durante il regime, la società nel suo complesso era un’istituzione totale. Oggi, una certezza così può offrirla soltanto la religione e il fanatismo. «A livello nazionale soltanto il 60 per cento degli ex orfani riesce a integrarsi», spiega Bratianu, «alcuni si fanno mettere in galera, altri entrano nella mafia, altri finiscono in ospedali psichiatrici, molti scelgono il monastero. Generalmente i bambini che crescono in questi orfanotrofi cercano di mantenere una posizione di dipendenza, cercano un ambiente istituzionale fondato sulla dipendenza».
Crescere significa uccidere il padre. Altrimenti non resta che venerarlo come Vasile venera oggi padre Daniel, il responsabile della morte di sua sorella. Un meccanismo psicologico che, almeno come metafora, fa pensare alle improvvise conversioni di una lunga serie di laici spaesati in tutto l’Occidente. L’illuminismo, «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità autoimposto» di Kant, assomiglia molto al lutto di abbandonare la propria infanzia e quella del mondo. Un’uscita faticosa se vengono a mancare le istituzioni che danno corpo ai sistemi politici e alle ideologie. Meglio bollare questa incertezza come relativismo e affidarsi a chi mostra di essere pieno di certezza. Anche il meccanismo che ha fatto di Irina la valvola di sfogo delle tensioni del gruppo ricorda le dinamiche del bullismo infantile. In questi casi spesso la vittima concorre, pur di ricevere identità dal gruppo, a mettere in scena il ruolo sacrificale assegnatole. Da quel poco che abbiamo capito di lei, non ha avuto questa colpa. Ha tentato di ribellarsi e di crescere, ha rifiutato i no e lottato per l’indipendenza garantita dai soldi guadagnati in Germania. Il Medioevo l’ha chiamata a sé.
Ha collaborato Mihaela Iordache.